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Padre padrone - Sardegna Cultura

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che ti rende tranquillo. Toh! Toh! Còntatele! Sei felice<br />

solo quando conti soldi! Toh! Còntateli!<br />

– Non voglio i tuoi soldi, ma la tua fuga. Fuggi, vattene!<br />

– Non me ne vado, io. Non me ne andrò. Chiama pure<br />

i carabinieri. Le tue forze non riusciranno più a mettermi<br />

in fuga. Qui sento che ci debbo restare. Ci ho lavorato<br />

tanto quando mi usavi come un attrezzo. Ora ho<br />

bisogno di restarci e ci resto. Non è una mia colpa se ho<br />

bisogno di questo. E ora che ti ho dimostrato che non<br />

ce la fai più a picchiarmi, se ti va ti concedo anche di<br />

sfogarti sul mio corpo. Toh! Io mi sdraio per terra. Vieni.<br />

Picchiami. Calciami. Fammi quello che vuoi come<br />

facevi prima. Solo così mi potrai picchiare. Perché non<br />

lo fai?<br />

Quando mi vide steso per terra, pronto a ricevere il<br />

suo furore sconfitto e rintuzzato davanti agli altri figli<br />

su cui voleva ancora comandare, non ebbe il coraggio<br />

di toccarmi. Avvilito e smontato si ritirò in silenzio e si<br />

rinchiuse nella sua stanza.<br />

Tutti si rimase allibiti e sconvolti da quanto era avvenuto.<br />

I miei fratelli senza parola. Io di colpo, vittima della<br />

situazione, avevo vergogna di quello che avevo osato e<br />

trovai scampo nella fuga. Prima di uscire di casa una<br />

paura angosciosa che il babbo stesse escogitando qualche<br />

stratagemma per costringermi ad andarmene, mi<br />

assalì. Per precauzione scrutai dalla toppa della sua<br />

stanza.<br />

Lo vidi seduto sul letto. Il volto quasi arroventato se<br />

lo teneva con la destra al mento. I suoi occhi erano fissi:<br />

rimuginava qualcosa in un silenzio sconvolto da<br />

300<br />

mille pensieri con i sintomi della lotta e della sconfitta.<br />

Il suo meditare tanto raccolto quanto concitato mi coinvolse<br />

e mi scosse fortemente. E, impalato lì davanti<br />

alla sua porta, mi passò per la mente quasi come un<br />

terribile presentimento il dramma di thiu Elia contro<br />

Forìca, che lui a Baddhevrùstana mi aveva raccontato<br />

più volte. In quel momento mi sembrò che il conturbato<br />

silenzio del suo raccoglimento lo stesse disponendo<br />

affannosamente a una tremenda decisione: se accettare<br />

il ruolo di sconfitto o agguantare la pistola e ottenere<br />

con l’arma ciò che non aveva potuto ottenere con le<br />

braccia e con l’autorità. Scappare mi sembrava la cosa<br />

più naturale.<br />

Mio padre non estrasse la pistola né il fucile, come<br />

spesso aveva visto fare in casi analoghi e come avevo tutte<br />

le ragioni per temere che facesse. Io continuai a rimanere<br />

in casa. La convivenza, ora, era impossibile. Non<br />

ci si poteva più rivolgere la parola. Ci sentivamo in colpa<br />

tutti e due. Nello scontro ci eravamo denudati veramente<br />

l’uno di fronte all’altro. La rabbia aveva distrutto<br />

ogni timore e ogni tabù e ciascuno aveva detto all’altro<br />

cose sempre trattenute nel proprio intimo. Ora avevamo<br />

vergogna di rivestirci e l’orgoglio ci impediva di<br />

rinnegare quello che ci eravamo scagliato contro. Ci<br />

eravamo scontrati troppo violentemente. La mia ribellione,<br />

però, lo aveva turbato. Per la prima volta una lezione,<br />

inaspettata, a furia di spinte e urti penetrò nella<br />

sua natura rocciosa e vi lasciò una eco nella lingua che<br />

lui conosceva bene. La sentì più volte e la capì. La bufera<br />

lo scosse come un albero con i suoi frutti in boccio e<br />

per quella stagione restò infruttuoso. Avendolo privato<br />

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