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Padre padrone - Sardegna Cultura

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stro sul collo mentre le cantava il requiem: – Mori, mori,<br />

bèstia fea; morii!<br />

Non si fu fortunati nel prendere la tanca in affitto e<br />

nell’accrescere il gregge in quell’anno. La tanca, anche<br />

se sdebbiata e bonificata dalle nostre roncole e dal<br />

mio aratro, per quell’anno non poté produrre pascolo.<br />

L’autunno trascorse senza piogge. Si era già in dicembre<br />

e ancora non era piovuto (non aìada ispezzàdu abbas).<br />

Il terreno non era germogliato (su terrìnu non<br />

aìada criàdu). I campi, aridi e secchi, riposavano, nudi,<br />

sotto l’interminabile estate prolungatasi fino all’inverno.<br />

Così, quando i pastori dai pascoli estivi delle pianure<br />

(dae issas istùlas) fecero ritorno sulle loro colline,<br />

vi trovarono solo le ghiande delle millenarie querce e<br />

le frasche dei sugheri sempre verdi (sa landhe e sa sida).<br />

Le bestie sopravvivevano a stento. Sui loro corpi si<br />

leggeva la fame da lontano. I loro scheletri si stagliavano<br />

avvolti dentro la loro pelle. I pastori si affidavano<br />

alla loro esperienza. Ricorsero alla biada, alla paglia e<br />

al foraggio dei loro granai in attesa dell’acqua, che<br />

non voleva cadere.<br />

Il bestiame, a furia di pastura a secco, deperiva e moriva<br />

a mandrie intere. Sui nudi campi nascevano così le<br />

carogne assalite dai corvi che vi si tuffavano con i loro<br />

famelici crocro. I pastori risposero con la loro disperazione:<br />

con i loro “cro-cro” lamentosi.<br />

Le greggi erano già decimate in dicembre quando finalmente<br />

arrivarono le piogge, che non furono proficue.<br />

Purtroppo insieme sopraggiunsero anche i freddi<br />

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invernali (sos frittos e sos rigòres malos). La terra così si<br />

sfreddò come una bevanda che il consumatore non ha<br />

potuto bere per qualche motivo. E non ebbe nemmeno<br />

il tempo di fermentare. L’erba rimase sotto: germogliò<br />

e basta. La brina, poi, nelle notti stellate, il vento e il gelo<br />

inaridirono anche i miseri germogli. La campagna rimase<br />

nuda fino a marzo. Fu necessario ricorrere al mangime<br />

venduto “a mercato nero” da privati o nei vari<br />

consorzi comunali. Noi grazie all’esperienza di nostro<br />

padre riuscimmo a salvare il gregge per intero e in primavera<br />

perfino a produrre anche un po’ di latte: il fitto<br />

della tanca.<br />

Di giorno, la smania di sopravvivere incalzava da tutte<br />

le parti. I pastori per le campagne abbattevano giornalmente<br />

branche di sughero: l’unica pastura reperibile<br />

nei loro campi. I tac! tac! delle loro roncole disseminavano<br />

segni di reazione alla morte. I sugheri, immobili<br />

con i loro fusti color sangue, quasi a testimoniare la<br />

morte lenta ed affannosa del bestiame, piangevano dappertutto<br />

mutili o atterrati e divorati dalle bocche insaziate<br />

del bestiame: – Mangiateci pure. Ricresceremo in<br />

primavera. – Questo il discorso nel loro silenzio, quasi<br />

si sentissero pascolo d’emergenza.<br />

La nostra salvezza però oltre che dai sugheri, venne<br />

da un orto di fichi d’india che il babbo abbatteva giornalmente<br />

e distribuiva cautamente. Alla fine si consumò<br />

anche il terribile ed interminabile autunno e il micidiale<br />

inverno. Venne la primavera con il suo rigoglio:<br />

dette le stampelle ai sugheri “invalidi”. Dette erba alle<br />

bestie, tranquillità ai pastori “sopravvissuti”. Il nostro<br />

gregge fu salvo.<br />

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