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vent’anni nell’animo di ogni pastore allora sorgeva un<br />
dramma comune: scoppiava il temporale della ribellione<br />
inconscia. E come lupi durante i rigori invernali anch’essi<br />
dovevano invadere pianure infide. Insomma<br />
dovevano invadere le pianure di quell’altro mondo che<br />
a loro insaputa era sorto e per cui i loro padri non li avevano<br />
potuti preparare perché non lo avrebbero mai immaginato<br />
e anche perché non lo avrebbero potuto. Le<br />
nuove generazioni erano costrette ad emigrare. Il rigore<br />
dell’inverno della loro vita li costringeva a invadere<br />
le pianure dove erano sorte le fabbriche e dove erano<br />
appostati dei pastori speciali che li sparavano. Si era<br />
praticamente rovesciata la situazione: essi ora erano le<br />
volpi e i lupi; le fabbriche erano le pianure; gli industriali<br />
erano i pastori.<br />
Così a diciannove anni anch’io sentivo che dovevo invadere.<br />
Il cielo della mia esistenza si stava annuvolando.<br />
Il sole stava scomparendo dietro nembi neri. I tuoni<br />
incominciavano a farsi sentire.<br />
Durante le mie giornate lavorative ora rivivevo i ricordi<br />
delle emigrazioni e le emozioni che mi avevano<br />
suscitato. E nei momenti di solitudine mi venivano in<br />
mente tanti giovani che avevano vissuto come me.<br />
Quelli che nel 1951 partirono per il Canada. Tutti sui<br />
venti o trent’anni, li ricordavo tutti amareggiati ed avviliti.<br />
Molti di loro li conoscevo sin da quando ero pastorello.<br />
Spesso, anzi, mi avevano soccorso o quando il<br />
mio somaro si coricava per terra facendo le bizze per liberarsi<br />
del mio carico o quando inzuppato dalla pioggia<br />
o congelato dalla neve o dalla brina, andavo urlando<br />
per le valli. Nel mio silenzio li sentivo vivi e mi veni-<br />
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va quasi spontaneo ricostruire i loro discorsi che avevano<br />
fatto con foga da braccianti, disposti in schiera mietendo<br />
sui campi altrui pochi giorni prima della loro<br />
partenza. E dai discorsi che mi affioravano, ora che anch’io<br />
sentivo il problema, capivo bene perché quel<br />
giorno lo avevano aspettato come una liberazione.<br />
Così anch’io, spinto da questo anelito di libertà, mi<br />
lasciavo andare. Rifacevo dentro di me i discorsi che essi<br />
avevano fatto nei campi in cui stavano mietendo. E<br />
anch’io, dal mio campicello, ora, provavo la rabbia dei<br />
loro discorsi: il loro sfogo politico inconsapevole.<br />
– Per fortuna fra poco me ne vado via da queste querce<br />
e da questi rovi: da queste sterili pietre piene di serpi<br />
e di vespai. Non sentirò più la voce arrabbiata di mio<br />
padre, mai contento. Lo so che andrò sotto <strong>padrone</strong>.<br />
Ma sarà diverso. Lo puoi piantare quando vuoi e poi la<br />
tua gente non lo conosce. Qui non ci chiamano nemmeno<br />
per nome. Ti senti dire: “Hai visto il servo di Thiu<br />
Laréntu? Il servo di thiu Juànne sta mungendo le pecore.”<br />
Avete capito? Qui il nostro nome non esiste.<br />
– Tu sei solo il servo di tizio o il servo di caio e basta. I<br />
cani sotto questo rispetto, sono più liberi di noi. Hanno<br />
un nome che non li degrada e con quello continuano a<br />
chiamarti sempre. Quando ero servo pastore di thiu<br />
Pàulu, il mio nome lo avevo perduto: per tutti ero il servo<br />
di thiu Pàulu. E così siamo tutti. Là sarà diverso, il<br />
<strong>padrone</strong> ci sarà, ma almeno ti tratteranno come un cane:<br />
ti chiameranno per nome. I soldi che guadagnerò,<br />
me li spenderò io. Qui mio padre mi fa lavorare notte e<br />
giorno. Quando faccio ritorno dalla mia dura giornata<br />
lavorativa, pretende che vada a lavorare nel nostro<br />
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