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intervista Michael Moore<br />
FILMOGRAFIA - Roger & Me (1989),<br />
Canadian bacon (1995), The big one<br />
(1997), Bowling a Columbine (2002),<br />
Fahrenheit 9/11 (2004), Sicko (2007),<br />
Capitalism: a love story (20<strong>09</strong>)<br />
Quello che non siamo<br />
Si conclude con un discorso storico di Roosevelt “Capitalism: a love story”,<br />
applauditissimo (a Venezia) ultimo documentario del provocatorio regista, che<br />
riesce a far riflettere senza stemperare l’ironia<br />
“Nel mio lavoro non sono<br />
mosso dall’idea di dover superare me stesso e<br />
fare in modo che il mio ultimo film sia<br />
necessariamente migliore del precedente. La<br />
mia grande passione è il cinema. È da quando<br />
sono piccolo che vado al cinema tre o quattro<br />
volte a settimana. Il venerdì sera, in una sala<br />
d’essai che oggi non c’è più, per anni ho visto<br />
ogni singolo film di Bergman, Fellini, Truffaut<br />
e Fassbinder. Quella è stata la mia ispirazione<br />
e la mia scuola per diventare regista. Così, una<br />
volta, quando vivevo con il sussidio di<br />
disoccupazione, ho deciso di prendere una<br />
macchina da presa e raccontare quello che<br />
succedeva a Flint, la città del Michigan dove<br />
sono nato e cresciuto. Da allora non ho più<br />
smesso”. Michael Moore racconta così la sua<br />
filosofia cinematografica, che lo ha spinto ad<br />
intraprendere una straordinaria carriera di<br />
documentarista che nel suo ultimo lavoro,<br />
Capitalism: a love story, sembra riuscire a<br />
raggiungere un climax sia sotto il profilo<br />
cinematografico che sociale e politico. Il<br />
miglior documentario diretto da Michael<br />
Moore è un viaggio in un’America devastata<br />
dallo scandalo dei cosiddetti mutui subprime e<br />
lacerata da una crisi economica in cui Wall<br />
Street è la protagonista di un vero e proprio<br />
colpo di Stato ai danni del resto degli Stati<br />
Uniti.<br />
Qual è la funzione del cinema?<br />
Quella di parlare a miliardi di persone e di<br />
creare un dibattito e una discussione. Io credo<br />
soltanto nell’azione collettiva e nella<br />
mobilitazione. L’azione personale del singolo<br />
è solo un’illusione in cui non credo affatto. O<br />
meglio: se non amo una particolare azienda<br />
per quello che fa, non compro i suoi prodotti,<br />
perché mi fa stare meglio. So bene che la mia<br />
scelta personale non serve a nulla ed è per<br />
questo che, invece, ho scelto di esprimermi<br />
attraverso un mezzo come il cinema, che mi<br />
mette in contatto con milioni di persone per<br />
raccontare loro le storie di cui sono testimone.<br />
14 VIVILCINEMA settembreottobre<strong>09</strong><br />
Il cinema può cambiare il mondo?<br />
Credo proprio di sì: Fahrenheit 9/11 non ha<br />
avuto un grande impatto nel breve periodo.<br />
C’è voluto un po’ di tempo perché si radicasse<br />
nella nostra cultura. Sono stato il primo a<br />
sparare contro George W. Bush e a prendermi<br />
il rischio di fare un film per il quale sono stato<br />
criticato e maltrattato dalla maggioranza<br />
delle persone. Facendolo, però, ho fatto in<br />
modo che anche altri iniziassero a scrivere e a<br />
fare film sull’amministrazione Bush. Sicko sta<br />
dando oggi un contributo significativo al<br />
dibattito sulla sanità che si sta sviluppando<br />
negli Usa. Il cinema serve a formare la<br />
coscienza delle persone e a raccontare le loro<br />
storie.<br />
Nel corso della sua carriera, lei è<br />
diventato un’icona: avverte una certa<br />
pressione sul suo lavoro?<br />
Sinceramente no. Non avverto alcuna<br />
particolare pressione se non quella di<br />
rispettare il pubblico che guarda i miei film e<br />
le persone che si rivolgono a me per<br />
raccontare i loro drammi. In Capitalism: a<br />
love story la prima sequenza è quella di uno<br />
sfratto di una famiglia rovinata dai mutui.<br />
Non l’ho girata io: me la sono trovata una<br />
mattina nella mia cassetta della posta. Ricevo<br />
cose del genere ogni giorno: dvd,<br />
videocassette insieme a semplici lettere di<br />
persone che mi scelgono come testimone<br />
delle loro sofferenze. C’è tanta gente che mi<br />
chiede aiuto in America e questo è il mio<br />
fardello personale: dover conoscere in prima<br />
persone le pene e la disperazione di persone<br />
che, come me, vivono nella nazione più ricca<br />
del mondo. Per me è molto difficile non<br />
sentirmi profondamente coinvolto da quello<br />
che mi viene raccontato e da ciò che io stesso<br />
decido di mostrare agli spettatori. Il mio<br />
obiettivo è quello di mostrare storie<br />
complesse e difficili riuscendo ad intrattenere<br />
il pubblico, mantenendo saldo il mio senso<br />
dell’umorismo. Ridere è l’unica maniera per<br />
non esplodere, allentando un po’ la tensione<br />
e scaricando l’inquietudine. Lo humour è<br />
fondamentale per me e per il mio cinema.<br />
Come riesce a mantenere la sua<br />
indipendenza?<br />
Faccio film che costano tra i due e i sei milioni<br />
di dollari, dei quali riesco a mantenere un<br />
controllo pressoché totale e che si rivelano<br />
molto profittevoli. L’incasso totale di<br />
Fahrenheit 9/11, contando tutti i biglietti<br />
staccati nel mondo e le vendite televisive e in<br />
dvd, è stato di mezzo miliardo di dollari. Così,<br />
qualsiasi studio è interessato a produrre<br />
quello che faccio, perché il mio cinema<br />
produce soldi senza perderne. La mia<br />
indipendenza è tutelata dalla formula che ho<br />
scelto per esprimermi e nella quale mi sento<br />
più a mio agio. Finché avrò successo dal punto<br />
di vista economico, potrò restare seduto al<br />
tavolo delle grandi distribuzioni e produzioni<br />
ed essere libero di scegliere.<br />
Capitalism si conclude con una sequenza<br />
commovente di Franklyn Delano<br />
Roosevelt che parla alla nazione. Come<br />
l’ha trovata?<br />
Tutti gli americani che la vedono piangono:<br />
Barack Obama potrebbe diventare il<br />
Roosevelt del ventunesimo secolo se avrà la<br />
forza e il coraggio sufficienti. Io intendo<br />
sostenerlo in questo cammino così come il<br />
resto degli americani. Per questo motivo ho<br />
mandato la mia squadra di ricercatori presso<br />
la famiglia Roosevelt e il suo archivio per<br />
trovare le immagini di quello straordinario<br />
discorso. Ci hanno detto che non esistevano,<br />
ed è in questi momenti che so di dovermi dare<br />
una mossa per ritrovarlo, cosa che, invece, è<br />
accaduta nella Carolina del Sud. Oggi questo<br />
materiale d’archivio appartiene al mondo e ci<br />
fa rimpiangere al pensiero di come avrebbe<br />
potuto essere diversa la nostra storia se solo<br />
avessimo seguito le idee esposte in quel<br />
discorso.<br />
MARCO SPAGNOLI