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Il Principe - Treccani

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anche dopo il conseguimento dell’unità nazionale a<br />

causa della persistenza di caratteri che erano insieme<br />

ancora particolari, per un verso, e astrattamente universali<br />

(la Chiesa cattolica e la sua dottrina) per un altro; e<br />

che a tal punto ha accentuato la sua problematicità in<br />

questi nostri anni di decadenza politica e morale da<br />

aver perduto la sua natura stessa di rapporto, quasi che<br />

gli Italiani non avessero più un passato al quale rivolgere<br />

domande per ottenere risposte e dare a se stessi<br />

un orientamento. È come se mille anni di storia fossero<br />

il luogo non di significati da cercare e interpretare, ma<br />

di una generale insignificanza.<br />

<strong>Il</strong> <strong>Principe</strong>, di cui questa mostra offre ai suoi visitatori<br />

tante e tante edizioni, fu scritto non, come si<br />

riteneva fino a qualche tempo, fra il luglio e il dicembre<br />

del 1513, ma, con buona probabilità e com’è<br />

comunque opinione dello scrivente, fra il luglio di<br />

quell’anno e il maggio del successivo, dopo che il suo<br />

primo disegno, che si fermava forse al cap. XI, fu<br />

riconsiderato per essere ampliato fino alla misura dei<br />

suoi ventisei. Fu composto, dunque, nei primissimi<br />

tempi dell’esilio dalla politica attiva che a Machiavelli<br />

fu imposto dai Medici, tornati a Firenze nel 1512, e<br />

decisi a tener lontano dalla Cancelleria l’uomo che<br />

per anni era stato il principale collaboratore del deposto<br />

Gonfaloniere perpetuo Piero Soderini. A differenza<br />

dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,<br />

per i quali non è stato possibile indicare un precedente<br />

a cui riferirli, di precedenti il <strong>Principe</strong> ne ha più d’uno,<br />

dal De regime principum di Tommaso d’Aquino prose-<br />

GENNARO SASSO<br />

14<br />

guito da Tolomeo da Lucca al De principe di Giovanni<br />

Pontano. Ma, senza negare che di questa letteratura<br />

egli fosse in parte informato, e che il modello del trattato<br />

gli stesse comunque in mente, è certo che Machiavelli<br />

non aveva torto quando nel cap. XV scrisse le<br />

famose parole che, se qui si ricordano, non è per celebrare<br />

il mito dell’originalità intesa in senso numerico,<br />

ma per dar conto della consapevolezza che egli aveva<br />

della rivoluzione che stava introducendo nella trattazione<br />

dell’argomento. Non erano solo gli autori dei<br />

predetti trattati de principe a esser messi in questione,<br />

ma un’intera tradizione di pensiero politico. <strong>Il</strong> riferimento<br />

andava a quegli scrittori che si erano «imaginati<br />

republiche e principati che non si sono mai visti né<br />

conosciuti essere in vero»; che avevano scambiato con<br />

l’essere il dover essere, la realtà quale è con l’auspicio<br />

di una realtà diversa, mentre a lui, Machiavelli, interessava<br />

la «verità effettuale della cosa, non l’imaginazione<br />

di essa». Parole famose che, se le si considera<br />

con tutta l’attenzione che meritano, non soltanto spiegano<br />

perché nel <strong>Principe</strong> siano state scritte pagine<br />

come quelle che costituiscono i capp. XVII e XVIII,<br />

e nelle quali è spiegato perché l’idea della legge che<br />

regola, secondo natura e ragione, i rapporti politici<br />

fra gli uomini debba cedere a quella imposta dalla<br />

necessità che le cose durino, gli Stati non crollino, i<br />

principi e i legislatori repubblicani non siano travolti<br />

dalla rovina. Quelle parole chiariscono fino in fondo,<br />

e senza mezzi termini, perché l’assunto sia, con necessità<br />

pari a quella enunziata dalla formula opposta, che

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