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L’esperienza d’internamento in un campo di prigionia giapponese insieme
ai genitori durante la Seconda guerra mondiale, che lo portò a scrivere
L’impero del sole da cui l’omonimo film di Steven Spielberg ha sicuramente
influito sull’atmosfera claustrofobica del grattacielo entro cui si svolge
tutta l’azione del Condominio. L’edificio protagonista della storia – e si può
proprio definirlo così – è parte di un nuovissimo complesso residenziale di
lusso, poco distante dalla City di Londra, costruito per soddisfare tutte le
esigenze dei suoi benestanti inquilini, con supermercato, palestra, piscina e
asilo interni. A tutti gli effetti una sorta di minicittà autosufficiente.
Improvvisamente, e senza alcuna motivazione specifica, si verifica nel
grattacielo una serie di incidenti dapprima di scarso rilievo (bottiglie che
vengono lanciate dalle finestre), poi sempre più frequenti, invasivi (blackout)
e violenti (il ritrovamento del cadavere di un cane nell’acqua della piscina).
Così, in parallelo al loro intensificarsi, esplodono tra gli abitanti rivalità e
tensioni sommerse, mentre il grattacielo sembra sempre più animato da una
volontà propria e progettato apposta per liberare, tra feste notturne a base
di alcool e droghe, le loro pulsioni sessuali, gli istinti più violenti, razzisti e
autodistruttivi. Gli inquilini si dividono in organizzazioni di tipo tribale che
rispettano una rigida suddivisione gerarchica, replica deteriorata delle tre
classi sociali: dai piani più bassi a quelli più alti si assiste a una lotta con
tanto di barricate tra un proletariato di tecnici cinematografici, hostess, ecc.,
una borghesia di liberi professionisti e la classe dell’élite di imprenditori,
attrici e accademici trincerata negli ultimi irraggiungibili piani fino alla terrazza
panoramica.
Lo scrittore segue le vicende di tre personaggi rappresentativi di ciascuna
classe, il videomaker Richard Wilder, il medico Laing, e infine l’archistar
del grattacielo Anthony Royal: ognuno di loro vivrà una parabola diversa.
Wilder persegue con bestiale determinazione l’obiettivo della scalata al
grattacielo e risalendolo fino agli ambiti piani alti dove la violenza distruttrice
è massima, come in un inferno dantesco a rovescio, la sua personalità
diventa sempre più primitiva così come la sua comunicazione regredisce
dalla parola a suoni disarticolati e gutturali. Barricato all’ultimo piano l’architetto
Royal aspetta la sua inevitabile fine, orgoglioso e quasi ascetico
nella sua sahariana bianca e nella delirante convinzione di essere il creatore
nonché il re del gigantesco edificio. L’unico a sopravvivere (non si sa per
quanto) e ad adattarsi alla nuova vita nel grattacielo, i cui interni sono trasformati
nel finale in rovine post-apocalittiche e in cui si vive ai minimi termini
soddisfacendo solo i più elementari bisogni corporei, sarà il dottor Laing,
espressione della classe media. Sa che ormai non potrà più lasciare questo
luogo perché non può più farne a meno. Con l’asservimento dei suoi ultimi
abitanti al nuovo stile di vita imposto dal grattacielo, si è compiuta un’aberrante
rivoluzione: il mostruoso edificio ha ormai spazzato via il mondo circostante,
e Laing osserva con compiacimento l’inizio di un blackout nel palazzo
di fronte, preludio al diffondersi di un “nuovo modello di mondo in cui
sarebbero vissuti in futuro. […] Uno scenario post-tecnologico, dove ogni
cosa era in abbandono. O, più ambiguamente, rivista secondo modalità inaspettate
e più significative”.
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