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Grotta Ricotti, Camerano
Ci sono momenti in cui un regista individua zone ancora inesplorate,
zone di sinergia che però si sondano dall’interno. Capita così di voler fare
del teatro che renda in qualche modo visibile l’invisibile, o almeno che lo
renda tangibile, percepibile. Si va a caccia di fantasmi, spazi oscuri e umbratili,
recessi circonvoluti della mente, abissi dove si può stare solo per
qualche istante prima di venire schiacciati dalla pressione esterna. Non c’è
luogo fuori dal teatro dove tutto questo possa essere sperimentato tanto
efficacemente, direttamente, nel corpo. Nel corpo degli attori e anche, se di
teatro ben fatto si tratta, in quello degli spettatori.
Per questa ragione un regista può lavorare su due piani apparentemente
distanti tra loro che invece, ogni tanto, si intersecano: ovvero da un
lato su figure del teatro antico opportunamente riscritte e ripensate (come
Antigone) e, dall’altro, sull’uso di tecnologie innovative che permettono di
modificare in maniera spesso radicale il rapporto tra attori e spettatori. Antichità
e contemporaneità insomma. Archetipi, contenuti inconsci che appartengono
in maniera originaria alla collettività degli umani e tecnologia
per espandere questi contenuti e portarli in superficie, alla conquista di
nuovi tipi di ambiente.
La tecnologia applicata alla scena teatrale ha una lunga storia, anche
se si immaginerebbe il contrario. Il teatro ne è sempre stato impregnato. Sin
dai tempi più antichi macchine sceniche molto articolate erano in funzione.
Nel teatro greco, per esempio, vi erano gru, argani, trabattelli, e degli specchi
– costruiti con scudi in legno ricoperti di mica riflettente – consentivano
di direzionare la luce naturale direttamente sulla scena che altrimenti
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