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STANZE_12_23_INTERNI

Un trimestrale di ricerca ed approfondimento culturale

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Grotta Ricotti, Camerano

Ci sono momenti in cui un regista individua zone ancora inesplorate,

zone di sinergia che però si sondano dall’interno. Capita così di voler fare

del teatro che renda in qualche modo visibile l’invisibile, o almeno che lo

renda tangibile, percepibile. Si va a caccia di fantasmi, spazi oscuri e umbratili,

recessi circonvoluti della mente, abissi dove si può stare solo per

qualche istante prima di venire schiacciati dalla pressione esterna. Non c’è

luogo fuori dal teatro dove tutto questo possa essere sperimentato tanto

efficacemente, direttamente, nel corpo. Nel corpo degli attori e anche, se di

teatro ben fatto si tratta, in quello degli spettatori.

Per questa ragione un regista può lavorare su due piani apparentemente

distanti tra loro che invece, ogni tanto, si intersecano: ovvero da un

lato su figure del teatro antico opportunamente riscritte e ripensate (come

Antigone) e, dall’altro, sull’uso di tecnologie innovative che permettono di

modificare in maniera spesso radicale il rapporto tra attori e spettatori. Antichità

e contemporaneità insomma. Archetipi, contenuti inconsci che appartengono

in maniera originaria alla collettività degli umani e tecnologia

per espandere questi contenuti e portarli in superficie, alla conquista di

nuovi tipi di ambiente.

La tecnologia applicata alla scena teatrale ha una lunga storia, anche

se si immaginerebbe il contrario. Il teatro ne è sempre stato impregnato. Sin

dai tempi più antichi macchine sceniche molto articolate erano in funzione.

Nel teatro greco, per esempio, vi erano gru, argani, trabattelli, e degli specchi

– costruiti con scudi in legno ricoperti di mica riflettente – consentivano

di direzionare la luce naturale direttamente sulla scena che altrimenti

110/PALCHI

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