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Uno che non ha mai amato la definizione di artista a differenza di tanti
altri colleghi che si comportano da star, bensì, molto più umilmente, un
testimone del proprio tempo, qualcuno capace di documentare e comunicare
realmente attraverso i propri scatti: Gianni Berengo Gardin.
Berengo Gardin è nato a Santa Margherita Ligure nel pieno ventennio
fascista, un’infanzia trascorsa a Roma, poi Venezia, Parigi, e infine Milano,
perennemente in viaggio per via del lavoro dei genitori.
Intorno agli anni Cinquanta, nella sua vita veneziana, iniziò ad appassionarsi
di fotografia e si iscrisse ad un circolo fotografico come un qualsiasi
fotoamatore.
Come per moltissimi altri maestri, oltre a una volontà incrollabile di
fotografare, e a un apprendistato lunghissimo fatto di centinaia di scatti ed
errori, anche per Berengo Gardin a trasformare il fotoamatore in fotografo è
stato un caso, il classico colpo di fortuna: l’intervento di uno zio americano,
molto amico di Cornell Capa, il fratello di Robert, che al tempo ricopriva il
prestigioso ruolo di direttore del Centro di fotografia di New York. Lo zio
chiese al suo amico un consiglio sui libri da spedire in Italia a quel nipote
tanto appassionato di fotografia, e Capa gli suggerì i cataloghi di Life, quelli
editi dalla Farm Security Administration, i libri di Dorothea Lange, e quelli
di Capa.
Per il giovane Berengo Gardin fu una rivelazione, una vera e propria
epifania: esisteva un genere di fotografia diverso, non meramente artistico,
il reportage, e a quest’ultimo si accostò cambiando radicalmente il proprio
modo di fotografare, seguendo le orme dei grandi reporter dell’agenzia Magnum,
fondata da Cartier Bresson, ai quali più volte è stato accostato per la
sua capacità di mantenersi quasi invisibile mentre scatta le sue immagini.
E mentre ancora abitava a Venezia aveva già preparato il suo primo
libro sull’amata città.
Fu un amico, il direttore della rivista Camera, che aveva pubblicato le
sue prime fotografie, durante una passeggiata serale al Lido qualche anno
dopo a domandargli perché non avesse provato ancora a fare il grande passo,
tentare di diventare un fotografo professionista.
Ma come si fa, con due figli, e un lavoro sicuro, a mollare tutto e inseguire
un sogno?
Furono le insistenze dell’amico a convincerlo: del resto lui conosceva
i più grandi fotografi del mondo, quindi, perché no?
Si trasferì a Milano, facendo la spola con Venezia solo nei fine settimana,
per fotografare, fotografare, fotografare qualunque cosa gli capitasse
a tiro per guadagnare un po’ di soldi e affermarsi: i matrimoni, le trattorie, i
servizi sui bambini belli delle spiagge italiane, perché non basta solo il
colpo di fortuna, ci vuole cultura, metodo e tenacia.
Dopo aver incanalato il suo lavoro nella direzione della fotografia industriale,
collaborando per grandissimi gruppi come Olivetti, Fiat, Ibm, nel
1962 pubblicò i primi scatti sul settimanale il Mondo, e non smise più di
fotografare, costruendo un archivio fotografico monumentale, più di due milioni
di opere, rigorosamente in pellicola bianco e nero (“la pellicola è il mio