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STANZE_12_23_INTERNI

Un trimestrale di ricerca ed approfondimento culturale

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Uno che non ha mai amato la definizione di artista a differenza di tanti

altri colleghi che si comportano da star, bensì, molto più umilmente, un

testimone del proprio tempo, qualcuno capace di documentare e comunicare

realmente attraverso i propri scatti: Gianni Berengo Gardin.

Berengo Gardin è nato a Santa Margherita Ligure nel pieno ventennio

fascista, un’infanzia trascorsa a Roma, poi Venezia, Parigi, e infine Milano,

perennemente in viaggio per via del lavoro dei genitori.

Intorno agli anni Cinquanta, nella sua vita veneziana, iniziò ad appassionarsi

di fotografia e si iscrisse ad un circolo fotografico come un qualsiasi

fotoamatore.

Come per moltissimi altri maestri, oltre a una volontà incrollabile di

fotografare, e a un apprendistato lunghissimo fatto di centinaia di scatti ed

errori, anche per Berengo Gardin a trasformare il fotoamatore in fotografo è

stato un caso, il classico colpo di fortuna: l’intervento di uno zio americano,

molto amico di Cornell Capa, il fratello di Robert, che al tempo ricopriva il

prestigioso ruolo di direttore del Centro di fotografia di New York. Lo zio

chiese al suo amico un consiglio sui libri da spedire in Italia a quel nipote

tanto appassionato di fotografia, e Capa gli suggerì i cataloghi di Life, quelli

editi dalla Farm Security Administration, i libri di Dorothea Lange, e quelli

di Capa.

Per il giovane Berengo Gardin fu una rivelazione, una vera e propria

epifania: esisteva un genere di fotografia diverso, non meramente artistico,

il reportage, e a quest’ultimo si accostò cambiando radicalmente il proprio

modo di fotografare, seguendo le orme dei grandi reporter dell’agenzia Magnum,

fondata da Cartier Bresson, ai quali più volte è stato accostato per la

sua capacità di mantenersi quasi invisibile mentre scatta le sue immagini.

E mentre ancora abitava a Venezia aveva già preparato il suo primo

libro sull’amata città.

Fu un amico, il direttore della rivista Camera, che aveva pubblicato le

sue prime fotografie, durante una passeggiata serale al Lido qualche anno

dopo a domandargli perché non avesse provato ancora a fare il grande passo,

tentare di diventare un fotografo professionista.

Ma come si fa, con due figli, e un lavoro sicuro, a mollare tutto e inseguire

un sogno?

Furono le insistenze dell’amico a convincerlo: del resto lui conosceva

i più grandi fotografi del mondo, quindi, perché no?

Si trasferì a Milano, facendo la spola con Venezia solo nei fine settimana,

per fotografare, fotografare, fotografare qualunque cosa gli capitasse

a tiro per guadagnare un po’ di soldi e affermarsi: i matrimoni, le trattorie, i

servizi sui bambini belli delle spiagge italiane, perché non basta solo il

colpo di fortuna, ci vuole cultura, metodo e tenacia.

Dopo aver incanalato il suo lavoro nella direzione della fotografia industriale,

collaborando per grandissimi gruppi come Olivetti, Fiat, Ibm, nel

1962 pubblicò i primi scatti sul settimanale il Mondo, e non smise più di

fotografare, costruendo un archivio fotografico monumentale, più di due milioni

di opere, rigorosamente in pellicola bianco e nero (“la pellicola è il mio

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