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Dopo le incursioni al terzo piano, il suo appartamento gli sembrava sempre terribile. Alzò le
tapparelle e spalancò le finestre, e confrontò gli spazi che ancora gli piacevano - due: la parete
coi quattro vinili autografati e incorniciati (Automobili, di Lucio Dalla; Panama e dintorni, di Ivano
Fossati; Tato Tomaso’s Guitars, di Ivan Graziani; Rank, degli Smiths, siglato da Johnny Marr) e
la fiancata della cassettiera bianca vivacizzata dalle manate di suo nipote Alfredo, quando era
bambino - con quelli di cui, più o meno consapevolmente, aveva cominciato a vergognarsi: le
piastrelle verdognole vecchia Milano, posizionate, chissà poi perché, in modo che le decorazioni
monolaterali compissero una specie di svastica intorno alle fughe; la lava lamp giallo e rosa
shocking, acquistata di seconda mano dagli eredi di un avvocato a Lorenteggio, così come il
divano Chesterfield a due posti, color vinaccia, cuoio screpolato, intorno a cui si reggeva l’intero
impianto estetico decrepito dei trenta metri quadri che Valerio sfruttava di più: un open space
soggiorno-studio-angolo cottura con parete attrezzata piena di cd e vinili a incorniciare una
tv Philips 36 pollici e un giradischi Shuman MC-250BT del peso di nove chili e con funzione
Bluetooth.
La quota più sconfortante, però, era rappresentata da due grossi ganci neri avvitati a metà del
corridoio, tra la sua stanza e il bagno. Valerio li usava come appendiabiti, ma un tempo erano stati
supporti per chitarra: i primi pezzi d’arredamento che aveva personalmente montato in quella
casa e gli ultimi a figurare nella lista di oggetti che pensava di dover ridestare.
Casa: una questione di colori da abbinare, spazi da riempire e abitudini da consolidare. Era stato
un inquilino sincero? No: quell’appartamento parlava di lui soltanto attraverso le cose che non
aveva scelto. Di gusto, almeno? Neanche. Non c’era interezza, non c’era una linea, non c’erano
idee. Aveva arredato citando. Ma le citazioni hanno sempre una data di scadenza.
Nicola H. Cosentino, Le tracce fantasma