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Accademia 56, Ancona
© Francesco Paci
inseriti in maniera dinamica nelle tre dimensioni dando allo spettatore un’esperienza
completamente immersiva.
Una decisione del genere, è ovvio, ha impattato fortemente sulla costruzione
dello spettacolo. Sul modo di lavorare degli attori, sul loro stile
recitativo. Le loro stesse voci dovevano infatti transitare all’interno del sistema
audio in modo da poter interagire con gli ambienti e con le musiche.
Anche in una collocazione che vede una distanza molto ridotta dagli spettatori,
gli attori dovevano perciò indossare dei microfoni ad archetto e recitare
in maniera estremamente intima. Sottile. La loro voce non sarebbe giunta
agli spettatori direttamente ma collocata nella posizione spaziale giusta
dal sistema audio tridimensionale. Ancora più importante è stata, a conti
fatti, la riconfigurazione del rapporto tra gli spettatori e l’esperienza teatrale
che è diventata meno “comunitaria”, più introspettiva e, soprattutto, la
rielaborazione del rapporto tra attore e spettatore.
Non ci si può rendere conto di quanto profonda sia questa ristrutturazione
fino al momento della prima rappresentazione.
Il pubblico in cuffia non dava più agli attori gli stessi feedback di sempre.
Appariva come precipitato, immerso in un mondo autocentrato. Come se
la cosa - che stava avvenendo davanti alle persone - fosse in realtà in altro
luogo, direttamente nel proprio cervello. L’obiettivo di iniettare direttamente
nella mente dello spettatore il mondo fantasmatico dei protagonisti era
stato centrato: ricreare, come faceva Prospero ne “La Tempesta”, un ambiente
illusorio ma presente, vivo e inquietante, con effetti a volte inaspettati.
Fatica ulteriore per gli attori è stata così quella di adattarsi a questo
nuovo livello di energia. Che non è diretta, passa per altre vie. Assuefarsi a
questa speciale solitudine in pubblico. Per ragioni tecniche, infatti, gli attori
non potevano sentire quello che sentiva il pubblico (una iniziale prova con
l’uso di cuffie in-ear, oltre a rivelarsi un’ulteriore complicazione, non era
risultata affatto funzionale alla recitazione), stavano letteralmente in un
altro luogo: avevano davanti una massa di persone che però era come se non
fosse lì.
Dopo la prima rappresentazione si è scelto di far recitare gli attori
come se fossero assolutamente soli. Lo spettacolo è così diventato l’incontro
tra due solitudini. La solitudine degli attori in scena e quella di ogni singolo
spettatore alle prese con un mondo interno che non può condividere con
nessuno. Con cui deve fare i conti. E per chi costruisce lo spettacolo è diventato
un ambito di ricerca che ha prodotto risultati insperati dimostrando come
la tecnologia, quando viene usata non soltanto nel suo aspetto puramente
spettacolare ma come elemento essenziale di un linguaggio poetico, possa
portare a profonde rielaborazioni e segnare un percorso dal quale non si
torna indietro.
113/PALCHI