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Mi guardai intorno e vidi che l'appartamento era vuoto come quando io e Micol ci eravamo
entrati l'agosto precedente. Un tavolo, quattro sedie, alcune sdraio rovinate dal tempo, una
credenza, librerie vuote, un divano sfondato, un letto, armadi con appese innumerevoli grucce
dondolanti come uccelli impagliati con le ali spiegate, e quel desolato pianoforte a coda che nè
io nè lei avevamo mai nemmeno toccato e che era ancora ricoperto di mucchi di locandine che
promettevamo di riportare nel New Hampshire pur sapendo che non l'avremmo mai fatto. Tutto
il resto era già stato imballato e spedito.
Nonostante le finestre aperte, l'appartamento di Kavafis, trasformato ora in un museo
improvvisato, appariva scialbo e sconclusionato. Tutto il quartiere era scialbo. Quando entrammo
c'era poca luce e, a parte qualche rumore isolato che saliva dalla strada, gravava un silenzio
di morte sul vecchio mobilio spoglio che, con ogni probabilità, era stato recuperato da qualche
magazzino abbandonato. Eppure quelle stanze mi fecero tornare in mente una delle mie poesie
preferite del poeta, dedicata a un raggio di sole che nel pomeriggio si rifletteva sul letto in
cui da giovane si coricava sempre con il suo amante. Ora, il poeta rivisita i locali a distanza di
anni, i mobili sono spariti, il letto è sparito e l'appartamento è stato trasformato in un ufficio
commerciale. Ma quel raggio di sole che un tempo illuminava il suo letto non l'ha mai abbandonato
e rimane per sempre inciso nella sua memoria. Il suo amante gli aveva assicurato che sarebbe
tornato nel giro di una settimana. Ma non ritornò mai. Avvertivo il dolore del poeta. Di rado ci si
riprende da certe cose.
André Aciman, Cercami