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A-Colophon+ indice - Centro di Documentazione Del Boca – Fekini

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L’immagine <strong>di</strong> Mussolini nelle memorie popolari del Novarese<br />

Non c’era libertà come adesso. Eravamo schiavi <strong>di</strong> noi stessi! Mi ricordo ancora le<br />

manganellate... (Giuseppe Giovenzani).<br />

C’era un’atmosfera un po’ tesa che dava fasti<strong>di</strong>o, però era bello uscire la domenica.<br />

Era però più bello pensare <strong>di</strong> uscire che non uscire regolarmente, perché avevamo<br />

sempre l’animo triste per via <strong>di</strong> questo clima. La cosa peggiore è stata la mancanza <strong>di</strong><br />

libertà, la tensione che c’era nell’aria e che erano i fascisti a crearla... Tutto un insieme<br />

<strong>di</strong> cose che ci facevano vivere male. Sono contenta <strong>di</strong> aver potuto vivere in un periodo<br />

<strong>di</strong>verso, dove si può esprimersi e, soprattutto... dove non c’è la paura (Li<strong>di</strong>a Volpones).<br />

Come si nota le parole scelte appaiono ferme e chiare: Mengozzi, Ar<strong>di</strong>zzi<br />

e Giovenzani usano senza problemi il termine «schiavi» per affermare la<br />

propria opinione sulla vita durante il fascismo. Termine eccessivo, certo,<br />

ma appropriato per ricordare gli obbligati silenzi e le deprivazioni che hanno<br />

con<strong>di</strong>zionato le culture familiari. Esemplare un altro racconto:<br />

Fiorina F.: «Mio figlio era un balilla, doveva mettere la <strong>di</strong>visa: pantaloni neri corti, il fez e<br />

la camicia nera. Doveva andare alle esercitazioni e anche quando andava a scuola doveva<br />

vestirsi così. Lui era contento perché... sa com’erano i bambini, basta che trovavano da<br />

<strong>di</strong>vertirsi. Per me il fascismo era come un ruìna famìli, perché quello che facevano non era<br />

bello. In fabbrica non si potevano fare <strong>di</strong>scussioni. Bisognava <strong>di</strong>re sempre che era cotta<br />

anche se era cruda, perché c’erano le ruffiane che se sentivano qualcosa andavano in ufficio».<br />

Virginia Paravati: «Suo marito come la pensava?».<br />

Fiorina F.: «È sempre stato comunista e forse anche per quello non trovava lavoro. Lui<br />

tutte le mattine andava in stazione a vedere se c’era qualche lavoro da fare, perché<br />

c’era sempre qualcosa da fare in stazione, così lavorava... e ce la siamo cavata. Nel ’35<br />

è stato assunto alla Cobianchi, dove faceva il capo piazzale. Nessuno lo ha aiutato a<br />

entrare... Avevano bisogno <strong>di</strong> un capo piazzale e così...».<br />

Virginia Paravati: «In casa parlavate <strong>di</strong> fascismo?».<br />

Fiorina F.: «Cercavamo <strong>di</strong> non parlarne neanche quando c’erano i figli, perché - sa<br />

com’è - loro frequentando i gruppi fascisti la pensavano in modo <strong>di</strong>verso, perché<br />

conoscevano solo quello, erano nati con il fascismo».<br />

Le affermazioni della donna, pur nella loro essenzialità offrono un quadro<br />

lucido delle <strong>di</strong>visioni generazionali all’interno delle famiglie: genitori che<br />

non <strong>di</strong>alogano <strong>di</strong> politica in presenza dei figli perché «loro frequentando i<br />

gruppi fascisti la pensavano in modo <strong>di</strong>verso». Anche un’altra intervistata si<br />

sofferma sulle <strong>di</strong>visioni prodotte dal regime nelle comunità: a Loreglia, per<br />

esempio, non si annoverano fascisti tra gli anziani - in<strong>di</strong>vidui formati dalla<br />

tra<strong>di</strong>zione e quin<strong>di</strong> piuttosto riservati - ma tra i giovani, perché «erano stati<br />

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