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121228-sgorlon - Udine Cultura

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e, sconvolte dalla paura atavica di un animale più grosso che potessero incontrare sulla loro via, e da<br />

cui avrebbero potuto essere divorati. Sentiva quella paura scolpita nelle vene, nelle corde tese delle<br />

budella. Si sentiva trascinato dalla rete a strascico di una pietà rasposa come le scaglie di un pesce,<br />

che aveva cento gole e cento bocche, e da ognuna di esse sfiatava un lamento vetroso sotto le stelle.<br />

Doveva strapparsi ad essa ed ai plotoni imploranti degli animali a viva forza. «Via, via! Non ho<br />

più niente! Basta, piantatela!» Ma dentro si scioglieva come colla scaldata. Si sentiva raggiunto e sommerso<br />

dalla marea montante della compassione, che in lui cresceva col capriccio lunatico e gigantesco<br />

dei fiordi rocciosi della Bretagna e della Cornovaglia. Provava l’impulso di afferrare un animale qualsiasi<br />

per la collottola e portarselo a casa, per fare con esso ruzzamenti e capriole sui pavimenti di casa<br />

sua, come faceva da moccioso, nella casa del nonno, a Montane, lontano dagli occhi di bove di suo padre.<br />

Le sue membra magre erano ancora sguizzate da raffiche di energia, da impeti giovanili, e invece<br />

nel suo sacco cozzavano e suonavano già più di quaranta noci. «Quaranta, quaranta!» sbalordiva. Era<br />

alto e magro come un asceta, tutto ossa, tendini e muscoli. Una faccia da contadino scavata dalle fatiche<br />

sotto la pioggia e sotto il sole, un viso di pelle di talpa asciugata nei soli roventi delle canicole.<br />

Era butterato malamente da un tentativo di vaiolo generato da una dose di vaccino troppo forte, collocata<br />

dalla sfortuna davanti al suo braccio nudo, poco prima di partire per una colonia marina. Gli occhi<br />

negreschi gli ardevano di febbri sconosciute e impetuose. I capelli, lucidi come pelo di iena, gli crescevano<br />

lunghi e disordinati, tendendo a torcersi in riccioloni sulle guance e sulla nuca. Addosso teneva<br />

giubbotti di cuoio tagliuzzati dalla vecchiaia, e calzonacci di tela, ruvidi come vele di antichi galeoni.<br />

Si sentiva dentro, anche dopo il lavoro, anche nel cuore di notti crivellate dal canto dei grilli,<br />

folate di una energia senza fine. Aveva bisogno di correre, di saltare, di agitarsi, di arrampicare, di dare<br />

libero sfogo a gridi rauchi che gli grattavano la gola come un odore di fritto. Perciò quando arrivava in<br />

periferia, nei pratelli polverosi, tra i casoni popolari, cominciava subito a sgambare coi ragazzini dietro<br />

pallonesse sgangherate e bozzerose, che ghignavano da squarci malamente ricuciti con spaghi biancastri,<br />

da ciabattini frettolosi o da madri bercianti. Le prime volte i ragazzini stupefacevano, allocchivano,<br />

e stavano a guardarlo come statue di sale.<br />

«Ma quello che vuole? Chi lo ha chiamato?»<br />

«E io che ne so? Si è messo lì da sé...»<br />

Lui però correva più di loro. Pareva più in fiato. Scartava, dribblava, segnava dei goal da lontano,<br />

sicché loro finivano per vederlo come uno della ganga, e gli sorridevano paciosi e amichevoli. «Sai<br />

pure segnare! Sei meglio di Nordhal!» gli dicevano ammirati. Li conquistava tutti, quanti erano. «Come<br />

ti chiami?» gli chiedevano. Mai avrebbero sospettato che il suo nome si conoscesse come quello di un<br />

corridore ciclista, e stesse sui cartelloni dei teatri e sulle copertine delle riviste. Già la terza o quarta<br />

volta che giocava con loro se lo disputavano bramosi, e quasi si baruffavano per averlo con sé. Gli davano<br />

del tu, fregandosi le manacce su canottiere pantanose, su camicie rattoppate. Pareva loro luminoso<br />

come l’arcangelo Gabriele, disceso dall’altare, e fattosi di carne e sangue per giocare. Da lui si<br />

aspettavano le sette meraviglie del mondo.<br />

Certe volte, di sera, quando le macchie dei pini s’erano ingoiate il melone rosso del sole, scoprivano<br />

la sua macchina sportiva. O era lui a mostrargliela. Loro alla prima guardatura capivano che<br />

era un’auto di quelle che per partire rombavano e stracciavano l’aria, come avessero un giaguaro nel<br />

motore. Non credevano ai loro occhi. Dalle bocche aperte colava giù inconsapevole la saliva del desiderio.<br />

Superato lo stupore lunare della rivelazione, cominciavano ad esaminarla in ogni parte, come<br />

fossero un branco di selvaggi del Gabon o del Borneo. Studiavano la targa, il cruscotto, il volante, le<br />

marce, toccando ogni cosa con le loro mani raspose. Si sedevano e si dimenavano sui sedili di cuoio<br />

rosso, lasciando i segni di terra delle loro brachette infangate. Coglieva nei loro occhi i riflessi dorati<br />

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