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121228-sgorlon - Udine Cultura

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venta il simbolo del vagare esistenziale, la ricerca indefessa di un luogo e di persone pronte ad offrire<br />

un’ospitalità che darebbe un senso al pellegrinaggio terrestre.<br />

Il destino dell’emigrante friulano include comunque la relazione viscerale con la pietra, il mâl<br />

dal clap, specie di vocazione all’operosità che appaga anche un’ansia metafisica. Il lavoro dello scalpellino<br />

non è considerato alla stregua di un castigo di Sisifo, ma si muta in co-creazione del mondo, in<br />

uno straniamento costruttivo che esprime una lode alla bellezza dell’universo.<br />

Pareva che tra noi e la pietra ci fosse una parentela che aveva le sue radici in un istinto remoto. (...) Quando<br />

venivano tagliate dal filo d’acciaio elicoidale ero sfiorato da fantasie e metafore sontuose, come se ogni blocco venisse<br />

dal Sinai, e contenesse le tavole di una legge che non conoscevo, ma che andavo recuperando nel momento stesso in cui<br />

le lavoravo. Incidendo le pietre mi pareva di venire scoprendo me stesso, chi ero e cosa facevo a questo mondo. (p. 28)<br />

L’intensità del rapporto col mondo inibisce in certo modo ogni predilezione definitiva per lo spazio<br />

dell’ospitalità domestica. Pur condividendo la gioia della convivialità russa, Valeriano si sente acciuffato<br />

dalla sconfinatezza siberiana. La morte d’Irina e del loro figlio travolge ogni sogno di un’ospitalità<br />

risolutrice, al punto che Valeriano riprende la propria vita randagia. Il personaggio dell’emigrante si<br />

atteggia ad apolide, non perché non possa raggiungere la terra natia, ma perché non ha trovato il luogo<br />

che porrà termine al proprio peregrinare. La traiettoria di Valeriano assomiglia ad un periplo senza fine,<br />

ad un nomadismo radicale di modo che viene escluso ogni stanziamento duraturo.<br />

Mi sentivo il senzapatria, l’uomo dalla terra perduta, che vagava a casaccio sotto cieli stranieri. La mia vita era<br />

tutta un viaggio che ricominciava sempre daccapo. (p. 33)<br />

In realtà, Valeriano accetta l’ospitalità solo in una prospettiva probatoria ed iniziatica, come<br />

una tappa che deve condurlo verso una meta ignota, qualunque siano i momenti di profonda derelizione.<br />

Egli non condivide il contegno di Bastiano, che, dal canto suo, rappresenta invece l’emigrante per<br />

cui il soggiorno all’estero equivale ad un esilio implacabile. Bastiano sembra ligio ad un’identità che<br />

attribuisce all’alterità una minaccia.<br />

Perciò Bastiano diffidava dell’estero, di qualunque paese si trattasse, e stava eternamente in allarme, come potesse<br />

capitargli qualsiasi cosa. Ogni momento aveva coscienza di trovarsi tal forest, in un luogo forestiero, che poteva<br />

generare qualsiasi sorpresa, come un territorio nemico durante la guerra. (p. 37)<br />

In compenso, l’isba di Ajdym diventa per Valeriano il luogo dell’ospitalità per eccellenza. Ajdym<br />

è immune da qualsiasi contaminazione oscena, perché appare quale la risorgenza di una figura mitica,<br />

nella fattispecie biblica, della donna consolatrice, dispensatrice di una pietas che non si cura del perbenismo.<br />

Seduto sul pancone o su una sedia dell’isba, mi pareva di capire fino in fondo perché i due esploratori di Giosuè,<br />

inseguiti dal re di Gerico, si fossero rifugiati nella casa di Raab la meretrice. (...) Chi entrava da Ajdym perdeva l’aria di<br />

individuo disperso e vagabondo, la luce di smarrimento che tremava negli occhi, e si sentiva restituito a se stesso e alla<br />

propria dignità. (p. 124)<br />

Tutt’altro che alcova furtiva e peccaminosa, l’isba d’Ajdym unisce la comunità degli emigranti<br />

e dei semi-autoctoni. L’isba si trasforma in una cornucopia gioiosa di cui la donna kirghisa è l’ispiratrice<br />

e la figura di spicco.<br />

Se Ajdym incarna effettivamente l’emblema dell’ospitalità umana più compiuta, la conchiglia<br />

di Anataj materializza maggiormente l’ospitalità come dono simbolico, destinato a tramandare il ricordo<br />

di tutti coloro che l’hanno posseduta. Oggetto incongruo che si presenta di primo acchito all’ospite,<br />

la conchiglia simboleggia peraltro il concatenarsi delle relazioni umane, l’interdipendenza sostanziale<br />

che unisce tutti gli uomini, nonostante le distanze spazio-temporali. Scambiata varie volte fra gli ospiti,<br />

la conchiglia sedimenta i significati latenti. La sua lunga storia è il frutto della benevolenza di ognuno<br />

degli ospiti che hanno visto in essa un oggetto prezioso anzi pregevole.<br />

Una delle cose che ci univano era, stranamente, una conchiglia, che si mostrava all’ospite sopra l’ultimo ripiano<br />

di uno scaffale, in una rientranza del muro. Era una grande conchiglia a spirale, e pareva la cupola di una pagoda orienta-

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