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spingono verso l’ignoto, alla ricerca della libertà, attraverso la “creazione”, senza sapere cosa essa sia,<br />
senza concretezza.<br />
Il libro è tramato da molti riferimenti intellettuali: Joyce, Marsilio Ficino, Ungaretti, Musil, Pirandello<br />
(Il berretto a sonagli). Maier ha indicato un punto di affinità con Kafka citando La tana, uno<br />
splendido racconto postumo.<br />
Certo, La poltrona è un libro dove si rappresentano il caos, la solitudine, la sofferenza, ma dove<br />
si sfiora anche il comico, dove si ritrovano insieme tanti registri, tante intuizioni, tanti interessi. E,<br />
ancora, paesaggi dell’anima, immagini gotiche di fatiscenza, trasandatezza, disgregazione. E, tutto ciò,<br />
risolto in una sorta di monologo ininterrotto che riflette il flusso di coscienza. Con la capacità, davvero<br />
straordinaria, di Sgorlon, di rendere “vere” le sofferenze artificiali e le finzioni di dolore che – in ogni<br />
caso – sono dolore autentico, come lo è – in ogni caso – quello di un nevrotico, di un ipocondriaco. E<br />
con la capacità di dare vita a gag, a scene comiche, grottesche, rese in velocità: «[Ada] corre dietro alla<br />
madre e continua a ridere, a ridere come una pazza, anzi non si capisce bene se rida o pianga. Sostiene<br />
la madre pel didietro, mentre quella è agitata da sforzi di vomito, e anche lei è ripresa dagli sforzi,<br />
mentre vien giù dalle scale il Sandro col corno a tracolla. Non riesce a passare subito perché la scala<br />
è occupata dalle due donne, e vedendole in preda agli sforzi si sente male anche lui, e corre verso il<br />
cesso arrivandoci prima di loro. Adesso non li vedo più, sento solo i loro urli e le loro risate nel bagno»<br />
(p. 110-111).<br />
Lo scrittore rivela una notevole capacità di rappresentare le velleità, le esaltazioni di un inetto,<br />
le cadute di tensione. In questo senso, Giacomo Cojaniz è anche – come già si suggeriva - fratello di<br />
Alfonso Nitti, il protagonista di Una vita di Svevo, anche lui venuto dal paese alla città, anche lui frustrato,<br />
anche lui alla ricerca di una integrazione impossibile.<br />
Il finale (la malattia, il delirio, le visioni) è un capolavoro di abilità immaginativa e di strutturazione<br />
del racconto («Le lastre si spaccano sul pavimento, ma la vecchia continua a sbattere le porte e le<br />
finestre, anche se entrano gelide sberle di freddo, anche se entrano volando oche e tacchini. La vecchia<br />
prende lo scialle nero e comincia a far vento, sperando che gli animali se ne vadano. Invece è proprio il<br />
contrario [...]. L’aria è tutta piena di piume, di becchi, di bargigli rossi e gonfi di sangue, di occhi tondi e<br />
immobili, di creste molli e sanguigne, di lingue a punta dure come schegge» (p.172). Una scena che –<br />
alla fine – porterà anche alla rappresentazione di una cruda solitudine.<br />
A questa stessa fase può essere ascritto anche La notte del ragno mannaro (<strong>Udine</strong>, La Nuova<br />
Base, 1970), in una caratterizzazione in cui suggestioni kafkiane ed espressionistiche collaborano a dar<br />
volto a una realtà allucinata, che emerge alla coscienza nella sua carica di deformazione del reale talvolta<br />
violenta. La fase successiva, quella in cui campeggia Il trono di legno (1973), viene poi preannunciata<br />
da uno dei libri più suggestivi e concentrati dello scrittore, La luna color ametista (1972): una fase<br />
dove si sarebbe manifestata la tendenza di una scrittura che – in un racconto fondato sull’immaginario<br />
e sul fantastico – avrebbe teso a raccogliere i segni di un universo archetipico e le tracce immutabili<br />
del destino, ignorati da una civiltà che vuol sfuggire alla ricerca della propria identità. Ma di questo si<br />
parlerà nei prossimi incontri.