dell’esistenza delle cose; sicché non siamo mai noi quelli che affermano o negano alcunché della cosa, ma la cosa stessa è ciò che di sé afferma o nega alcunché in noi 228 . Niente soggetto della conoscenza che si erga al di sopra delle idee, giudicandole affermandole o negandole, niente divina volontà, che come autonoma facoltà sancisca l’idea dell’intelletto nella sua correttezza o meno, niente sostanza come luogo dove appaia quella pittura muta che è l’idea nella teoria della conoscenza cartesiana. Figuriamoci cosa possiamo farcene di un dio non ingannatore come sommo garante e ultimo ricorso possibile in questo precipizio dei fondamenti. «Habemus enim ideam veram et idea vera debet cum suo ideato convenire». Rigido? Assai efficace, piuttosto. La verità produce, e nel suo produrre si conferma come tale. Non si può partire da altro che dal possesso certo del vero e svolgerlo. Porsi problemi antecedenti, un metodo del metodo del metodo e così all’infinito è ritardare infinitamente quel fatto dato che è il vero e del quale è impossibile dubitare. «Nessuno che ha un’idea vera ignora che l’idea vera implica una somma certezza» 229 . Avanzare il dubbio per non assumere ingenuamente il vero è ingenuamente porsi in una posizione critica. Critico è assumersi il vero in quanto realtà che scandisce istantaneamente attualmente l’idea della nostra mente, è non concepire astrattamente i nostri pensieri come finzioni di una mente folle scollata dalla realtà, e la realtà stessa come qualcosa di sempre al di là, possibile, contingente, non necessaria, persa in infinite misurazioni di misurazioni di conformità. «Idea vera debet cum suo ideato convenire». Debet: dovere ontologico e morale. Dare dignità ai nostri pensieri è assumerli sotto la forma del vero, assumersi la responsabilità del fatto che «l’oggetto dell’idea che costituisce la Mente umana è il Corpo», che la mente non solo non è entità separata dal corpo e da esso inscindibile, ma nemmeno è sostanza. La mente non è luogo dove appaiano «pitture mute», ma è il processo delle idee mai svincolato da quello del reale 230 . Ogni pensiero ha necessariamente un equivalente segno fisico all’interno di una simultanea quanto incommensurabile assegnazione determinata nel processo infinito delle cause, identico nell’ordine dei pensieri e delle cose. La falsità dell’uno intacca necessariamente l’altro, spingendo in un’impotenza che è davvero l’unica cosa non reale, perché «l’idea vera sta alla falsa come l’ente al non ente» 231 . Tentare di essere geometrici ha a che fare non tanto con un rigido dogmatismo, quanto piuttosto con un bisogno intrinseco ed infinito, conatus insopprimibile, di pensare agire veramente. Ci sforziamo soltanto, indefinitamente, di essere 232 . Non c’è niente di meno rigido che essere liberi di essere necessariamente ciò che si è, questo è il massimo della fluidità, ed è esser atti all’interno di un continuo ed infinito processo che è il reale. «Se lo neghi, concepisci se è possibile» 233 . La concepibilità, quando si tratta di un’idea che valga questo nome, non è un fatto soggettivo. «La falsità è un’affermazione (o negazione) di una cosa che non conviene con la cosa stessa» 234 , e, «sebbene a parole si possa dir tutto» 235 , quando la mente comprende, l’inconcepibilità reale è inconcepibilità soggettiva, ovvero ci è impossibile concepire quel concetto, in quanto falso. E l’assurdo al quale tentiamo di forzare la mente è davvero l’origine della follia come rottura di ogni ordine e privazione di realtà, sottrazione d’essere. Pensare adeguatamente, ordinatamente, «scire per causas», significa avere realtà, avere ed essere in quella realtà che siamo, che continuamente si costituisce e muta, non come ignari, non come passivi ma come parte di un processo che ci tocca e che tocchiamo continuamente. 228 KV, II, 16.. 229 E, II, pr. 43, sch. 230 Cfr. E. Giancotti, «Sul concetto spinoziano di mens», in Ricerche lessicali su opere di Descartes e Spinoza (a cura di G. Crapulli ed E. Giancotti), Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1969, pp. 119-184. 231 E, II, pr. 43. 232 Cfr. E, III, pr. 7: «La forza con la quale ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere non è altro che la sua attuale essenza»; e ivi, pr. 8: «La forza, con la quale ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere, non implica un tempo finito, ma indefinito». 233 E, I, pr. 11, dem. 234 KV, II, 15. 235 TIE, p. 109. 31
«Qualunque cosa concepiamo che sia nel potere di Dio, è necessariamente» 236 . Il fatto è che è già tutto vero, e noi non dobbiamo fare altro che affrontare la fatica di pensarlo. Adeguatamente, precisamente, nel dovuto ordine. Per saperlo. 236 E, I, pr. 35. 32
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