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Sara Pagliano ALIA VERITATIS NORMA - Lettere e Filosofia ...

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esser chiamato in causa tranne l’Artefice che aveva così ben predisposto quell’unione<br />

dell’anima al corpo al fine pratico che i sensi informassero veracemente su quel che era utile o<br />

nocivo al composto. Non può fare giusto un’eccezione, nella Sua infinita bontà e onnipotenza, a<br />

quelle inderogabili leggi secondo le quali ha costruito quello «instrumentum universale» 416 che<br />

è il nostro corpo? Un arbitrio nell’arbitrio? Non può. Ha liberamente scelto di governare il<br />

corpo attraverso leggi: ora Dio stesso deve agire in conformità con esse. Altrimenti «esset in<br />

Deo defectus constantiae» 417 . Ci si deve arrendere: «dal che è interamente manifesto che,<br />

nonostante la sovrana bontà di Dio, la natura dell’uomo, in quanto esso è composto dello spirito<br />

e del corpo, non può non essere qualche volta fallace e ingannatrice» 418 . Stavolta l’immutabilità<br />

di Dio confligge con ciò che Egli vuole. Negli altri casi voleva le verità eterne e le leggi di<br />

natura erano la sua stessa azione: la sua potenza permaneva intatta. In questo caso si deve<br />

concedere un margine di impotenza, per salvare, di Dio, almeno la bontà. Ma che sia un «vero<br />

errore della natura», che si giudichi questo un vero e proprio caso di controfinalità, non implica<br />

che qui si stia contravvenendo alla regola «omnes Dei fines nos latent, et temerarium est in eos<br />

involare velle» 419 , che pur vigeva nella IV Meditazione? In quest’ultima si argomenta, infatti,<br />

solo una teodicea ipotetica. Come accade che nell’ambito dell’unione fra anima e corpo i fini<br />

imperscrutabili di Dio sono conoscibili e controllabili 420 ? Che cosa è in gioco qui di tanto<br />

importante? Se non si ipotizza una finalità pratica per l’unità psicofisica da opporre alla finalità<br />

speculativa della teoria della conoscenza aristotelica, e si sceglie di salvaguardare<br />

l’inconoscibilità del fini di Dio, si pone irrimediabilmente in pericolo la già debole teoria<br />

innatista di fronte alla ben più plausibile spiegazione data dall’aristotelismo. Quella finestra sui<br />

fini di Dio deve esser lasciata aperta, pena il far apparire l’empirismo più in armonia con la<br />

veracità divina, rovinando così l’intera teoria della conoscenza cartesiana e minando la stessa<br />

giustificazione della scienza costruita su un Dio onnipotente e non ingannatore.<br />

Qui il teorizzatore della libera creazione delle verità eterne e dell’infinita e incomprensibile<br />

potenza di Dio è stretto nella morsa degli stessi strumenti che finora hanno sorretto l’impresa di<br />

giustificazione della scienza accanto ad una teologia arbitrarista. Ora a qualcosa bisogna<br />

rinunciare, altrimenti tutto cade. Licet impotentia Dei, qui si dà un «verus error naturae».<br />

Ma nella costruzione di Spinoza accade qualcosa di diverso: la potenza viene lasciata libera di<br />

essere necessaria, e si esplica in una produzione infinita di cose e di idee infinitamente<br />

conoscibili, dove nessuna può essere «un vero errore di natura» o falsa. La falsità, infatti,<br />

consiste solo in questo, «che di una cosa si affermi alcunché, che non è contenuto nel concetto<br />

che della stessa ci siamo formati» 421 , ossia consiste «nella privazione di conoscenza, che le idee<br />

inadeguate, ossia mutile e confuse implicano» 422 . E «un vero errore di natura» non costituisce<br />

un problema, non perché non siano indagabili i fini, ma perché «la Natura non agisce in vista di<br />

un fine; e […] quell’Ente eterno e infinito che chiamiamo Dio o Natura agisce con la stessa<br />

necessità con la quale esiste» 423 . Dunque possiamo annoverare tra le finzioni «quel che<br />

comunemente dicono, che la Natura talvolta fallisce o pecca e produce cose imperfette» 424 ,<br />

perché la perfezione e l’imperfezione «sono in realtà solo modi del pensare, cioè nozioni che<br />

siamo soliti inventare per il fatto che confrontiamo gli uni agli altri individui della stessa specie<br />

416 R. Descartes, Entretien avec Burman, AT V, p. 163.<br />

417 Ivi, p. 164.<br />

418 R. Descartes, Meditazioni Metafisiche, cit., p. 82.<br />

419 R. Descartes, Entretien avec Burman, cit., AT V, p. 158.<br />

420 Cfr. R. Descartes, Meditazioni Metafisiche, cit., p. 77: «Queste sensazioni o percezioni dei sensi non<br />

essendo state messe in me che per significare al mio spirito quali cose sono utili o dannose al composto di<br />

cui è parte, e fin lì abbastanza chiare e abbastanza distinte, io me ne servo tuttavia come se fossero regole<br />

certissime, per mezzo delle quali sia possibile conoscere immediatamente l’essenza e la natura dei corpi<br />

fuori di me, sulla quale, tuttavia, esse non possono nulla insegnarmi, che non sia assai oscuro e confuso».<br />

421 TIE, p. 124.<br />

422 E, II, pr. 35.<br />

423 E, IV, praef.<br />

424 E, IV, preaf.<br />

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