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LA CORTE BENEDETTINA DI LEGNARO Vicende ... - Giuliocesaro.it

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FRANCESCO G.B. TROLESEnon contentandosi di ciò che era loro presentato dagliaff<strong>it</strong>tuari; questi poi, a norma degli statuti di Padova,non sarebbero potuti essere estromessi dalle ab<strong>it</strong>azioni,che con tanto sacrificio avevano realizzato a propriespese. A sua volta il governo veneziano con la ducaledi Pasquale Malipiero, preso atto dell’accorato ricorso,incaricò il podestà di Padova Benedetto V<strong>it</strong>turi perchéprovvedesse alla soluzione del caso, il quale sentenziò infavore dei dir<strong>it</strong>ti del monastero 63 . Il podestà affidò a suavolta, per richiesta dell’abate, a Benedetto Malgarini,proprio nunzio, e a Giovanni Sellarino, pubblico notaio,la verifica sul posto del rispetto della sentenza, nel casoad Isola dell’Abbà. Allorché i messi comunali si presentaronosui campi per controllare la quant<strong>it</strong>à dei raccoltisoggetti a decima, accompagnati dal cellerario Celsoda Milano e dal fattore del monastero Daniele Burato,furono ricevuti, all’inizio del mese di luglio 1458, a maleparole da Gaspare e Agostino del Tono e Nicolò Negrato:il diverbio che ne seguì si tramutò in violenza fisicaverso il cellerario e il fattore, i quali furono così violentementecolp<strong>it</strong>i che si ruppe il manico della forca usata.In conseguenza di questi fatti l’abbazia il 6 luglio sporseregolare denuncia per mezzo del proprio procuratore,Federico da Vigonza, presso il giudice del maleficio odel criminale, esistente a Padova 64 . La causa fece il suocorso giungendo fino al Senato di Venezia al consigliodei Rogati, i quali si pronunciarono il 23 agosto 1459in favore dei monaci, perciò essi poterono raccoglieredirettamente la decima sui campi, o aff<strong>it</strong>tarla liberamentea coloro che volevano, come sarebbe parso piùconveniente 65 .Altri casi, relativi sempre al mutamento d’indirizzonella gestione dei possedimenti, accaddero poco tempodopo quando il cellerario Celso da Milano il 15maggio 1460 presentò al podestà di Padova un’istanzadi sfratto di Antoniolo Dal Cortivo dalle proprietà delmonastero 66 . Il podestà Jacopo Loredan sottopose laquestione al Consiglio dei Dieci di Venezia. Il magistratoveneziano Daniele Bernardo, incaricato a risolverela vertenza il 26 maggio 1462, ordinò con una suasentenza di rest<strong>it</strong>uire i dir<strong>it</strong>ti nello stato in cui eranostati goduti prima del ricorso, cioè diede ragione aicontadini 67 . Nelle fasi dell’istruttoria i giudici ricorseroad una rogatoria presso il podestà di Firenze, Jacopode Bonarellis da Ancona, il quale raccolse nel mesedi marzo del 1461 nel pubblico palazzo fiorentino ladeposizione di Nicolò da Firenze, già cellerario diSanta Giustina, allora residente nella Badia fiorentinaper affari, ma ricoprente la funzione di cellerario per ilmonastero di San Benedetto Po (Mantova). Il monacofiorentino ricostruì, in tale frangente, l’armonia deirapporti tra il monastero e Antoniolo Dal Cortivo esuo figlio Nicolò 68 .La causa contro i contadini ebbe altri attori, perché imonaci ricorsero nuovamente al tribunale veneziano,attendendo il cambio dei funzionari, sperando così dispuntarla con nuovi aud<strong>it</strong>ori 69 . Durante questa fase il 12marzo 1466 il procuratore, Antonio da Corte, in nomedei fratelli Bartolomeo e Domenico de Biliotis, esposeal podestà di Padova, Marco Zane, che i monaci nonpotevano modificare le norme vigenti da oltre 50 anni.Il loro ragionamento si basava sul fatto che l’allora abateperpetuo Ludovico Barbo, con il consenso del suocap<strong>it</strong>olo, nel rinnovare nel 1417 i contratti di locazioneagraria con gli uomini di Legnaro aveva introdottoun’usanza di valore universale, in conseguenza dellaquale i contadini non solo avevano l’obbligo di migliorarela resa, ma potevano anche venderli e concederli indote ai figli, senza richiedere il previo assenso ai monacidi Santa Giustina. Il da Corte argomentava, inoltre,che i patti erano stati certamente messi per iscr<strong>it</strong>to neiregistri d’amministrazione dell’abate veneziano, maalcuni monaci dopo il suo governo ne avevano maliziosamenteoccultato o distrutto le copie, concorrendocosì a farne perdere la traccia. Il procuratore era certoche esistesse nel monastero il libro delle invest<strong>it</strong>urecontenente gli atti del 1417. La certezza di tale assertopoggiava su un inconfutabile dato di fatto: i dipendentidi Legnaro nutrivano un’alta stima verso il riformatoredi Santa Giustina, poiché non è verisimile che l’abate,uomo buono e santo, come dimostrarono le sue azioniin v<strong>it</strong>a e dopo la morte, avesse affermato il falso,mentre all’incontrario il suo stile di v<strong>it</strong>a si era sempredimostrato verace 70 . L’esposto del procuratore dei con-42

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