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PRIMO POLIZZI IL PRIGIONIERO CHE CANTA - liabarone.it

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Ora come allora<br />

Questa è la storia dei Polizzi ripercorsa sul fi lo della memoria, da Primo, da Laura, da Clara<br />

Dragoni. Questa è anche la storia di Primo che, dopo il silenzio durato quarant’anni, ha<br />

testimoniato la deportazione a Mauthausen e soprattutto ciò che di questa esperienza resta<br />

vivo in lui. Una serie di colloqui, per alcuni versi penosi. Non certo liberatori come per molti altri<br />

sopravvissuti. Forse perché quel periodo cruciale della sua esistenza gli si è sedimentato nella<br />

stanza chiusa del cervello. Interiorizzato al massimo, penetrato nella carne. Non ricordo ma<br />

presenza di un passato mai disgiunto dall’ora, mai rinnegato bensì percep<strong>it</strong>o quale fulcro, fi ne<br />

e principio di tutto ciò che era prima e di tutto ciò che è stato dopo.<br />

* * *<br />

Ricordo ancora quando nella primavera del 1985 gli avevo fatto leggere la prima bozza di<br />

questa introduzione. «Non capisco perché non hai usato il nome Manetto – mi aveva fatto<br />

notare – perché è questo il mio vero nome. Primo l’ho usato nei periodi che non consideravo<br />

vissuti, mentre per quelli veri usavo Manetto». Ed aveva aggiunto: «Ero Primo sotto tortura ed in<br />

concentramento dove ero Manetto solo per Angelo Bianchi, il mio amico d’infanzia. Sono stato<br />

poi Primo quando ero malato, Manetto negli istanti felici».<br />

Non c’erano state repliche da parte mia, né giustifi cazioni di sorta. Appunto perché sono stati di<br />

Manetto: il coraggio e la voglia di essere vivo; la capac<strong>it</strong>à di razionalizzare e nello stesso tempo<br />

di soffrire nel ricordo il suo non odio per i tedeschi; infi ne l’analisi delle responsabil<strong>it</strong>à di quegli<br />

ambienti internazionali che con il tac<strong>it</strong>o appoggio avevano favor<strong>it</strong>o e consolidato quel sistema.<br />

Ma è nel suo essere stato Primo la testimonianza sempre presente della tragedia di allora,<br />

la cattiva coscienza di noi tutti che con indifferenza, giorno dopo giorno, abbiamo rifi utato di<br />

ascoltare il suo racconto fatto anche di dolorosi silenzi, senza cercare di comprendere la sua<br />

antistoria come quella di tanti altri sopravvissuti.<br />

* * *<br />

L’ultima volta che sono andata a trovarlo all’ospedale, poco prima della fi ne, era totalmente<br />

silenzioso. Forse per l’estrema debolezza, forse perché la sua mente era defi n<strong>it</strong>ivamente là…<br />

Non avevo potuto fare a meno di notare, appoggiata sul letto, una composizione di orchidee.<br />

Angiolina mi aveva allungato un biglietto: semplici parole segu<strong>it</strong>e dalle fi rme di un gruppo di<br />

alunni, il desiderio di incontrarlo ancora un volta tra i banchi del liceo Romagnosi per ascoltare<br />

la sua testimonianza.<br />

«Poche parole per farle sapere che le siamo<br />

vicino, un augurio di guarigione da chi spera<br />

di rivederla presto: per la forza di quello che ha<br />

fatto, per il ricordo che ci ha portato, per tutto<br />

ciò che non verrà mai dimenticato. Grazie.» (52)<br />

52 - Il biglietto è della classe terza E del Liceo Classico Romagnosi, anno scolastico 2000/2001, insegnante Maria<br />

Cristina Quintavalla.<br />

53

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