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A questo punto, nell’intraprendere il cammino verso la definizione di<br />
una coscienza non già falsamente libera, errante nel labirinto del relativismo<br />
soggettivo, bensì autentica fonte di libertà, di verità e di bene, Ratzinger<br />
abbandona la forma della trattazione rigorosamente concettuale ed<br />
astratta, per adottare invece una forma narrativa – più attraente e non<br />
meno rigorosa – che gli consente di polemizzare, con leggera ma efficace<br />
ironia, contro i sostenitori dell’essenza soggettiva della coscienza.<br />
Fu all’inizio della mia attività accademica che, per la prima volta, divenni consapevole<br />
di tale questione in tutta la sua urgenza. Una volta, un collega più anziano,<br />
cui stava molto a cuore la situazione dell’essere cristiano nel nostro tempo,<br />
nel corso di una discussione, espresse l’opinione che bisognava davvero esser<br />
grati a Dio, per aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in<br />
buona coscienza. Infatti, se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti,<br />
non sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il<br />
peso della fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento<br />
che percorrono un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere<br />
la salvezza. Quello che mi sbalordì in quest’affermazione non fu innanzi<br />
tutto l’idea di una coscienza erronea concessa da Dio stesso, l’idea, per<br />
così dire, di un accecamento mandato da Dio stesso per la salvezza delle persone<br />
in questione. Ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile<br />
da portare e che sia adatto solo a nature particolarmente forti: quasi una<br />
forma di punizione, e comunque un insieme oneroso di esigenze cui non è facile<br />
far fronte. Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più<br />
accessibile, la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui<br />
cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a<br />
quel giogo morale, che la fede della Chiesa cattolica comporta 24 .<br />
C’è, a mio avviso, qualcosa dello stile pascaliano in questa pagina di<br />
Ratzinger. Qualcosa del Pascal raffinato polemista delle Lettere Provinciali.<br />
In effetti, la forma narrativa scelta non a caso da Ratzinger – col personaggio<br />
del collega universitario, buon cattolico, che sostiene candidamente<br />
la tesi della positività della buona coscienza, senza fede e senza doveri<br />
morali – ci riporta, mutatis mutandis, a certe sapide scene rappresentate<br />
in quella sorta di commedia che Pascal imbastisce nelle Provinciali. Tra<br />
l’altro, il buon collega – che con la sua lode a Dio, per aver concesso a<br />
24 Ivi, pp. 7-8.<br />
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 69