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L’ospitalità dell’Abate con l’intrattenimento in biblioteca. L’accesso era studiato affinchè, chi entrava, non avesse a tirare dietro di sé la porta ma fosse la porta stessa ad aprirsi senza sforzo per chi volesse entrare ed arricchirsi con i testi contenuti in quello splendido luogo. È qui che, dopo l’ammirato colpo d’occhio a trecentossessanta gradi per scorgere il più possibile di tanta bellezza, iniziano le domande sull’accoglienza del pellegrino, le modalità di ospitalità ed i rapporti con il monastero ed i suoi abitanti. San Benedetto insegna che chiunque bussi alla porta del convento deve essere accolto e rifocillato. Il pellegrino non poteva avere rapporti con i monaci che vivevano vita di clausura, ma per i suoi bisogni doveva rifarsi all’abate o ad un suo delegato. Al giorno d’oggi, al di là di una doverosa prudenza, si rispetta ancora la vecchia intenzione di S. Benedetto e quindi, qualsiasi persona abbisogni di riparo o di un pasto caldo, sarebbe sicuramente accolta. Esiste tuttora ufficialmente un monaco adibito al portierato notturno. Ma come mangiavano i monaci e come cucinavano il pasto? L’alimentazione era frugale e data principalmente dai prodotti della terra: frutta fresca, verdure, legumi, frumento che, venendo lavorato in loco, serviva per la panificazione; carni bianche di animali da cortile, nonché di pecora e capra, formaggi e latticini. Tutto doveva essere preparato all’interno del monastero e minimi dovevano essere gli spostamenti dei monaci all’esterno per reperire generi alimentari, visto che il contesto socio-ambientale, nei secoli antichi, era assai burrascoso per le continue guerre e contese tra i vari feudi. Si consumava molta carne di pesce che per essere conservato veniva allevato e mantenuto in vita in vasche situate all’interno del monastero. Non si usava consumare carne di quadrupedi se non per fini di riabilitazione o per monaci anziani debilitati e sofferenti. La carne rossa stimolava appetiti sessuali non propriamente consoni all’ambiente monastico. I pasti venivano cucinati in ampie cucine in muratura, alimentate a legna, costruite adiacenti il refettorio. I pasti non erano abbondanti e le porzioni erano calcolate nella misura del cibo imposta da S. Benedetto: “state bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano per l’intemperanza”. Per i monaci giovani la quantità di cibo era addirittura inferiore a quella degli adulti, fatti salvi i periodi di lavoro più faticoso, che presupponevano da parte dell’abate qualche aggiunta. Si beveva acqua e vino, il secondo ottenuto dalla coltivazione della vigna. Rimaneva comunque, anche per il consumo del vino, un regolamento sulla quantità di assunzione in considerazione al lavoro, più o meno pesante, del caldo dell’estate ecc.; questo perché si conveniva sulla necessità di essere sobri, evitando di bere sino alla sazietà, infatti “il vino fa traviare anche i saggi”. 38
39 L’ospitalità dell’Abate Oltre alla preghiera che scandiva i vari momenti della giornata di un monaco, c’era la vita lavorativa che trovava compimento nel lavoro dei campi e nella coltivazione e lavorazione delle erbe e degli infusi medicamentosi. Ad altri il compito non meno gravoso della distillazione del whisky, di rosoli, grappe saporitissime e, in alcuni casi, della lavorazione della birra. Rimango amareggiato del fatto di non essere riuscito ad avere maggiori informazioni sulla cucina monacense; forse perché non esistono testi che riproducono ricette e modalità operative e, forse, per il fatto che l’alimentazione era condizionata dalla povertà del tempo, nonché da criteri di ristrettezza imposti dal credo cristiano. A conclusione di questa mia ricostruzione dei fatti, credo che la ricetta più bella che mi sono portato a casa sia stata sicuramente quella data dalle sensazioni di serenità e pace che solo un luogo così bello poteva trasmettere.
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