Angelo Mai e altri racconti - Centro di Documentazione Pier Vittorio ...

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film, o raccontato in volumi e volumi di agiografie e racconti epici, abbia un corrispettivo nella realtà, di cui questa è finalmente la manifestazione; impauriti dall’apocalissi si ritorna alla ragione, che non potendo più però esplicare l’accaduto si rivolge ad altre ragioni, ad altre persone che magari conoscono una normale spiegazione rinfrancante e razionale. Tutti allora si girarono verso Stephen, l’unico che sapeva qualcosa di Viktor: Stephen era stato finora distratto da un paio di lacci che non ne volevano sapere di sciogliersi. Quando notò il silenzio, come si nota l’assenza di un guastafeste in una bella serata, alzò gli occhi e vide che tutti lo guardavano. Poi girò lo sguardo verso Viktor che s’era nel frattempo alzato e mostrava la schiena rea dello stupore, ed ebbe quasi un cenno di svenimento: «Ma che cazzo? Viktor! Ma quelle sono…cioè clamoroso, porca troia; quelle sono…» «Che cosa? Ah, queste. Sì, sono le mie ali. Non te ne ho mai parlato?» 10
PARTE SECONDA Alain Vaneschi aveva avuto un’infanzia di mostri: inesistenti per lo più, ma ancor più pericolosi per questo. Il contatto è rassicurante perché già testimonia l’esistenza e quindi la perfettibilità di quel tentacolo; ed è inoltre patologicamente confortante, come il dolce conforto che prova l’ipocondriaco quando vede le sue paure concretizzarsi su una cartella clinica. Il terrore di una scossa sismica atterrisce, e si libera quell’adrenalina solo dopo il terremoto, che si capisce che tutto è passato, e incolumi ci si addormenta. Non è ciò che manifestamente esiste che terrorizza l’uomo, ma ciò che potrebbe scatenarsi. Per questo Alain Vaneschi doveva spendere la sua vita per la rimozione di quelle fobie, vere e proprie paure che si concretizzavano in maniera perfetta solo nel pensiero. La scienza solamente poteva aiutare un uomo del genere; non il concetto di scienza fallace che avevano in mente i suoi contemporanei. Costoro reputavano scienza ciò che era verificabile, scartando a priori il fatto che il concetto di verifica fosse un assioma del tutto inventato da un uomo, uno come noi, con niente di divino nel corpo o nello spirito da giustificarlo come essere dominante sui suoi simili. Il concetto di scienza invece invade campi fallibili del sapere umano, e si impone come metodo critico in continua relazione col metodo applicato alla realtà, e quindi solo metodo. Imprescindibile. Tutto ciò portava a considerare scientifica anche la letteratura, o almeno l’interpretazione di essa. Perciò gli interessi di Alain Vaneschi spaziavano dalle formule chimiche alle teorie semiotiche, entrando nel campo della pittura con lo stesso approccio della termodinamica, il montaggio cinematografico e la matematica non euclidea. Le due lauree conseguite velocemente in Lettere classiche e in Fisica teorica lo avevano portato a essere un uomo unico, l’unico a cui si sarebbe potuto affidare un esperimento del genere. Ma non erano stati anni facili quegli degli studi per Alain. Poca fiducia riponeva la sua famiglia nella sua mente, che per lui tanto scientifica, era considerata un astronomico subbuglio di stronzate. Lo spronavano come si può spronare un bambino a ripetere il gesto semplice per lui nuovo e formidabile, come quello di riuscire ad aprire una scatola, e richiuderla, e riaprirla, sotto lo sguardo fintamente stupefatto del genitore sorridente. Insomma: battevano le manine. Così la fiducia nella sua mente doveva essere continuamente drammatizzata, e lui doveva far finta di non dare retta alle sue grandi doti. Ma quelli erano anche anni diversi per l’Italia: certo più difficili economicamente, e anche pervasi da un rispettoso rispetto rispettante verso chi studiava; oggi probabilmente, all’alba del ventunesimo secolo, Alain non avrebbe continuato la sua lotta, e avrebbe intrapreso seriamente uno di quei lavoretti che invece, per fortuna, si era solamente limitato a fare sporadicamente per darsi l’illusione di una quasi indipendenza stentata. Solo la sua famiglia non credeva veramente alle sue doti, e le pressioni di parenti e amici e professori e chi avesse subito quella cieca obbedienza all’uomo sui libri, portarono alla convinzione che quella seconda laurea umanistica, che sembrava proprio non entrarci una minchia, servisse a un qualche scopo. E servì. Appena uscito dalla seconda e stantia festa di laurea, a lui si interessarono ricercatori di aziende private, che compivano in quegli anni seri studi sull’essere umano, un po’ per puro amore della filantropia, un po’ perché sapere più sull’uomo ti dà la marcia in più per controllarlo. Questa azienda era l’IRU, Istituto per le Ricerche Umane, un ente che non si capiva, e non si sarebbe mai capito bene, se fosse pubblico o di privata iniziativa di dipendenti di altre aziende che effettuavano ricerche commerciali su l’uomo. Uno di questi che lavorava per l’ESRU, Ente per lo Sviluppo e la Ricerca sull’Uomo, ed era entrato nell’IRU come componente aggiuntivo per l’effettuazione di esperimenti, ente che poi si staccò ufficialmente dall’IRU per associarsi ad altri enti internazionali simili ad esso, formando l’IRO, l’International Research Organization, che poi cambiò il suo nome in…insomma una serie di cambiamenti e di camuffamenti non permettevano di stabilire con sicurezza chi o che cosa avesse affidato al dottor Vaneschi l’incarico di formare un gruppo di ricerca che proponesse prima di tutto che cosa ricercare. Dopo i primi progetti non molto I 11
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