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I riflessi letterari dell'Unità d'Italia nella narrativa siciliana

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Il barone Garziano, un prepotente signorotto di Castro, di fede borbonica, che si adatta ai<br />

capovolgimenti politici mantenendo intatto il potere, è il protagonista del racconto, mentre il figlio<br />

di Mastro Carmelo, il giardiniere che fa anche da cocchiere al barone, è colui che scrive molti anni<br />

dopo le memorie degli avvenimenti.<br />

Nell’epilogo si configura già il futuro, il ragazzo che ha deciso di partecipare attivamente<br />

alla storia, che ha seguito Garibaldi e che ha continuato a lottare per “l’umano avvenire”, si è<br />

accorto che si è trattato solo di un inganno crudele, e questo gli appare chiaro al momento della<br />

repressione dei Fasci siciliani. E’ ormai stanco e vecchio, dal disinganno sofferto nasce la decisione<br />

di scrivere, di ripercorrere la storia della propria vita, narrandola fin dai ricordi d’infanzia<br />

( Questi ricordi scrivo mentre mi trovo,in solitudine,rifugiato in una casa di campagna nel<br />

territorio di campo bello. Fedeli amici mi hanno offerto scampo all’arresto,a Castro mi cercano<br />

carabinieri e soldati;come allora i soldati e i gendarmi del Borbone,carabinieri e soldati del regno<br />

d’Italia arrestano a Castro,e in ogni paese della Sicilia,gli uomini che lottano per l’umano<br />

avvenire. Sento rimorso per essermi sottratto all’arresto: ma la galera mi fa paura,sono vecchio e<br />

stanco. E scrivere mi pare un modo di trovare consolazione e riposo; un modo di ritrovarmi,al di<br />

fuori delle contraddizioni della vita, finalmente in un destino di verità) 267<br />

Nella testimonianza scritta quindi c’è l’unica possibilità di salvaguardare la verità e lo<br />

scrivere è rimasta l’unica strada per opporsi ad un potere sempre vincente.<br />

sottintendente<br />

A Castro il potere si divideva tra quattro persone: il vescovo, il barone, il giudice regio e il<br />

Il vescovo,attraverso il monastero di San Michele e la Mensa Vescovile,aveva in mano un buon<br />

terzo della proprietà terriera di Castro; altrettanta ne aveva il barone; il rimanente territorio era<br />

diviso in piccole proprietà e in terre demaniali: e le terre demaniali il barone lentamente ma<br />

sicuramente veniva usurpando ,senza peraltro suscitare allarme nel Decurionato Civico,che quelle<br />

terre avrebbe dovuto guardare dalla privata usurpazione 268<br />

Il quartetto era “affiatato ed unanime nel prendere le decisioni”che poi la polizia si<br />

incaricava di tradurre in “fatti”, in arresti,come avvenne nel 1847 quando i soldati borbonici<br />

libereranno Castro dalla “mala gente, dalla gramigna”, 34 persone, briganti e i nemici del re e del<br />

barone.<br />

Il 16 gennaio 1848 la rivoluzione divampa anche a Castro e, per calmare gli animi, il<br />

vescovo riceve il Comitato Rivoluzionario mentre il barone, da buon opportunista, commenta con il<br />

sottintendente<br />

Voglio vederci chiaro in quello che succede,se rivoluzione dobbiamo fare la facciamo tutti,non vi<br />

pare ? […] Tiriamo giù lo stemma col giglio,se la canaglia così lo vuole: ma io quello stemma<br />

267 Sciascia, L., «Il quarantotto» in Gli zii di Sicilia, Adelphi, Milano,1992,p.116<br />

268 Ibidem,p.123<br />

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