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VeneziaMusicaedintorni 48 - RIVISTA COMPLETA - Euterpe Venezia

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si provocatoriamente proprio alla vigilia del rovente Sessantotto<br />

o, nell’84, di un colorito e ipernaturalistico adattamento<br />

della Carmen di Bizet, con Julia Migenes-Johnson, Placido<br />

Domingo e Ruggero Raimondi.<br />

Si evincono bene da questi dati la complessità e la ricchezza<br />

della personalità di Francesco Rosi e il valore, la potenza<br />

rappresentativa del suo cinema e del suo modo di incidere<br />

nella realtà e nelle sue varie raffigurazioni, anche spettacolari.<br />

Non va infatti mai dimenticato che Rosi è anche, forse<br />

soprattutto, un formidabile uomo di spettacolo in senso il<br />

più ampio possibile: dal teatro di prosa all’opera lirica, dalla<br />

fiction al documentario, ogni forma di messinscena lo attrae<br />

e lo stimola. Pertanto, l’efficacia documentale, sociale e<br />

ideale del suo cinema non prescinde – al contrario – dall’impianto<br />

narrativo ma vi si integra, utilizzando stilemi di vari<br />

generi (gangster movie, melodramma, commedia, noir, film<br />

di guerra, film-opera) alla ricerca persistente di un contatto<br />

quanto più possibile immediato con il pubblico.<br />

Francesco Rosi è infatti un cineasta «popolare», quando<br />

la parola non equivaleva ancora ad un insulto, ed è nello<br />

stesso tempo un cineasta di élite, selettivo, dal linguaggio,<br />

dal lessico non sempre facilmente accessibili, e dallo sguardo<br />

spesso profetico. Quasi mezzo secolo prima di Gomorra,<br />

scende con il suo esordio da regista in proprio La sfida (1958)<br />

nei vicoli della nativa Napoli per raccontare con durezza e<br />

asciuttezza ma anche con immensa umanità, grazie alla penna<br />

della grande e spesso a lui vicina (così come Tonino Guerra)<br />

Suso Cecchi d’Amico, una storia di camorra, di amicizia<br />

e di famiglia. E l’anno dopo, con I magliari, aspra tragicommedia<br />

su malavita e immigrazione, è tra i pochissimi a cercare<br />

con successo di sfruttare al massimo le (esilissime) doti di<br />

Alberto Sordi come attore drammatico. Ma è con Salvatore<br />

Giuliano e Le mani sulla città (1962 e ’63) che Rosi declina<br />

perentoriamente le generalità del proprio cinema di denuncia<br />

e di ricerca, iniziando a chiamare con nome e cognome<br />

alcune delle più inquietanti zone d’ombra della nostra storia<br />

recente: il primo, con una geniale struttura a flashback, rievoca<br />

la vicenda del bandito separatista siciliano autore della<br />

strage di lavoratori di Portella della Ginestra, della sua morte<br />

violenta nel 1950 e delle collusioni già vivissime fra mafia<br />

e ambienti reazionari; il secondo, forte di una drammaturgia<br />

ferrigna, squadrata, semidocumentaristica, affonda il bisturi<br />

nello scandalo della speculazione edilizia e nell’abbraccio<br />

mortale tra malaffare, apparati dello Stato e malavita. Le<br />

apparenti digressioni di Il momento della verità (1965), girato<br />

in Spagna e storia di un contadino che per sfuggire alla<br />

miseria affronta il destino dell’arena, e del già citato C’era<br />

una volta, prelude al trittico-Volonté<br />

Uomini contro,<br />

Il caso Mattei (Palma d’oro<br />

a Cannes nel ’72) e Lucky<br />

Luciano: sorta di Orizzonti<br />

di gloria italiano il primo,<br />

da Un anno sull’Altipiano di<br />

Emilio Lussu, straziante ancorché<br />

un po’ enfatico anatema<br />

pacifista, ritratti in piedi<br />

gli altri due di un antieroe<br />

dell’imprenditoria italiana e<br />

di un gangster sui generis, entrambi<br />

con fortissimo spirito<br />

d’indagine sui retroscena,<br />

i misteri e le aree oscure dei<br />

rapporti fra potere, finanza e<br />

politica. Se Cadaveri eccellenti<br />

cala ancora una volta l’argomento<br />

mafioso in una tipica<br />

atmosfera sciasciana da incubo<br />

insolubile e kafkiano, Cristo<br />

si è fermato a Eboli e il successivo<br />

Tre fratelli (1981) dimostrano<br />

una nuova fase creativa<br />

del regista, più intima e<br />

personale, memorialistica e<br />

lirica, letteraria e pacata ma,<br />

come attesta la già ricordata<br />

trasposizione marqueziana<br />

dell’87, non meno intransigente.<br />

Dimenticare Palermo,<br />

del ’90, robusto film di mafia<br />

aggiornato ai tempi, con Jim<br />

Belushi, Vittorio Gassman, è<br />

una nuova imperiosa dimostrazione<br />

di vitalità così come, dopo Diario napoletano, amaro<br />

e disilluso ritorno documentaristico nella realtà napoletana<br />

a trent’anni da Le mani sulla città, lo è ancor di più La tregua<br />

(1997), in cui le pagine implacabili di Primo Levi si decantano<br />

in un racconto intriso di sfumature e sottigliezze,<br />

dove l’atrocità dell’argomento non conosce né la retorica né<br />

gli stereotipi di tanto coevo cinema sulla Shoah.<br />

In tutto questo percorso, coerente e di straordinaria compattezza<br />

pur nella diversità dei risultati, il faro ispiratore di<br />

Rosi è sempre rimasto quello dell’approfondimento, della<br />

perlustrazione, dell’indagine pubblica e privata. Un maestro<br />

di cinema e di coscienza civile, in sintesi, per il quale «il<br />

momento della verità» non è mai sterile esercizio memorialistico<br />

o passato da archiviare, ma irrinunciabile viatico per<br />

un futuro migliore. ◼<br />

cinema 57

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