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Vite contadine - Inea

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110 MONICA CAGGIANO<br />

O MUNN’ S’È CAGNATO TUTTO QUANTO!<br />

111<br />

Assunta, che vive lì dal ‘31, ossia da quando è nata, mi parla del trasferimento<br />

con le lacrime agli occhi: «E certo che mi dispiace di andarmene, chesta<br />

e a terra mea, poi tenimm’ l’animal, ma solo pe’ affezione. Non si guadagn’<br />

ca terra, nun se guadagna chiù è finito tutto… prima eravam chiù pover, ma<br />

ci adattam’. Se fatt’ nu munno nuovo, nui vivimmo ancora alla buona, certo<br />

o pane nun u facimm chiù. O forno o tenimm’ ancora, ma mo o pane sadd’<br />

accattà ogni giorno. Nisciun o vole chiù o pan tuost. Mamma mia faceva o<br />

pan’ ogni 15 giorn’ cu criscito. Mo chisà che ‘mbruogl che fann’… certo, cu<br />

cafone teneva a capa grossa e u cervello fino, ca sennò manco se viveva».<br />

«Ma oggi ò cafon chi è?», le chiedo. Mi risponde risoluta e orgogliosa:<br />

«Simmò nui, i contadini! Però senti che odore e vacc’, mica qua sient a puzza<br />

ra munnezz!».<br />

Attraversando il cortile interno si arriva ai cinque moggi di terreno coltivati<br />

da Giacomo; un moggio vale 0,333 ettari, quindi l’area è pressappoco<br />

di un ettaro e mezzo. Il terreno era coltivato soprattutto a granoturco, che<br />

veniva venduto di anno in anno al miglior offerente, poi c’era l’orto: «…ruoccol’,<br />

pummarol’, fasul’, tenevam’ nu poc e tutto. Cu e pummarol, facevem e<br />

conserv’, pure quest’anno l’hamm’ fatte, ma l’anno che vene nunnè pozz chiù<br />

chiantà».<br />

La produzione dell’orto era destinata soprattutto al consumo familiare,<br />

circa 15 persone, tre nuclei, e il resto venduto alle signore del vicinato; di<br />

questo se ne occupava la moglie. Accanto alla casa c’è la stalla, ancora pregna<br />

dell’odore di cavallo, benché ormai sia vuota. «Peppina, la mia cavalla da<br />

tiro ha cinque anni, viene da Roccaraso, ma ora l’ho dovuta dare, la tiene un<br />

amico e gli ho detto che se la trova a vendere, che la venda… e che aggia fa?».<br />

Peppina, con cui un tempo raggiungeva anche la terra, è stata adesso sostituita<br />

dal motorino.<br />

Dal lato opposto alla stalla c’è un’aia. Qui le donne «scugnavano e fasule<br />

cu le vegane, prima c’era un sacco di gente che lavorava la campagna». La<br />

zona è ombreggiata da un albero: «Che albero è?», gli chiedo. «Niente»,<br />

mi risponde. «Come niente?», ribadisco. «Niente, è un cazzone. Solo per la<br />

frescura». Suo nipote, osservando il mio sguardo perplesso, mi spiega che gli<br />

alberi per il nonno, come per gli altri contadini della zona, sono solo quelli<br />

che danno frutti, il resto è Niente.<br />

Ora, segno dei tempi, anche l’aia è invasa dai rifiuti, ci sono i resti di un<br />

manifesto prima affisso nel cartellone pubblicitario che campeggia sul muro<br />

della masseria. Al di là del muro c’è una pompa di benzina, poi si vedono<br />

delle serre. «Ci sono i fiori – dice il vecchio Giacomo –, nelle serre lavorano<br />

gli extracomunitari, con i fiori si guadagna bene, ma si lavora male, ’nchiusi e<br />

poi ce metton nu sacco e velen». Quando gli chiedo se anche lui usa i “veleni”<br />

sulle sue piante mi guarda tra l’offeso e l’arrabbiato «Io? I veleni sulle cose<br />

che mangio? Ma fosse pazz’? Quando mai!».<br />

Giusto fuori dalla masseria c’è un ambulante, quasi sicuramente abusivo,<br />

che vende fiori di plastica, tutti perfettamente uguali e incellofanati in buste<br />

di plastica, con fiocchi di plastica, inevitabilmente destinati a trasformarsi con<br />

rapidità nella spazzatura che, in un grande cumulo, si addensa giusto accanto<br />

al venditore. Fuor di metafora sembra di essere di fronte al simbolo esplicito<br />

della follia di una società che se, da una parte, decreta la morte dei sani prodotti<br />

della terra, dall’altro alimenta la vita di fiori morti, a loro volta produttori di<br />

morte (il collegamento tra la diossina prodotta dalla plastica e l’eccezionale<br />

incidenza di tumori di molte zone del napoletano è innegabile).<br />

In fondo al campo c’è una sopraelevata, una delle strade a scorrimento<br />

veloce che dovrebbero decongestionare il flusso di macchine intorno alla<br />

cinta urbana, ma che secondo gli operatori non basterà a contenere la mole<br />

di traffico che si svilupperà nella zona a seguito del trasferimento nelle vicinanze<br />

dello storico mercato ortofrutticolo di Napoli. In lontananza si vedono<br />

dei lampioni e un grande capannone: «È il mercato ortofrutticolo, l’hanno<br />

aperto oggi dopo quattro anni di attesa, ma io non ci posso andare, ci vogliono<br />

incartamenti e tutt’ manere. La frutta arriva coi camion dalla Puglia,<br />

dalla Spagna, da lontano…». Un ulteriore evidente paradosso del moderno<br />

sistema agro-alimentare, mi viene da pensare. E il vecchio Giacomo mi legge<br />

nel pensiero: «I coltivatori diretti non esistono più, oggi non trovi nessuno<br />

che vuole stà mienz’ a terra. Quelli che hanno preso il pezzo di carta, non<br />

vogliono lavorare i campi, nessuno dei miei figli e dei miei nipoti coltiva la<br />

terra, hanno studiato. E tu?». E mi guarda sorridendo: «Hai detto che tuo<br />

nonno era contadino e tu? Hai studiato e mica fatichi mienz’ a terra? Oggi<br />

è difficilissimo trovare manodopera, prima qua c’erano pure dieci donne che<br />

lavoravano assieme nei campi, mo se trovi qualcuno è extracomunitario, ma<br />

devi andare a Casoria 4 ».<br />

Nel terreno c’era fino a poco tempo fa una capanna, che poi è stata bruciata,<br />

quando gli chiedo da chi, Giacomo scuote le spalle come a dire: che ci vuoi fare,<br />

qui è normale anche questo. Al contadino che guarda il suo terreno brillano<br />

gli occhi, che si venano di tristezza; poi scuote le spalle e guardando lontano<br />

dice: «Qua è tutto ’e nu proprietario, la terra, la pompa di benzina, il suolo<br />

dove sta il mercato ortofrutticolo. Qua la terra è buona, abbiamo il pozzo per<br />

l’acqua, ma mo ce l’hanno levata e che vuò fà? L’agricoltura non interessa più<br />

a nessuno, prima invece era tutta campagna». Allora ripenso alle parole di suo<br />

nipote Giacomo: «Mio nonno nel campo è armonioso come un fiore… I miei<br />

nonni non sono contadini, sono animali da lavoro, un contributo al benessere<br />

senza alloro, un’incoscienza senza fini. Persi nell’esperienza, come cavalli<br />

da tiro, collaborano con l’ambiente senza rubare alla natura, concedendosi<br />

il puro raccolto dell’eccedente. La campagna per loro è relazione genuina e

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