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Vite contadine - Inea

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162 MONICA CAGGIANO<br />

STRANI QUESTI GIOVANI D’OGGI!<br />

163<br />

stalle. Angelina era una donna eccezionale, è sempre rimasta legata a San<br />

Fruttuoso dove negli ultimi anni viveva con la figlia nella torre. Era l’unica<br />

persona che incontravi d’inverno, la vedevi sempre sulle scale. Ci raccontava<br />

della loro vita quotidiana, ne parlava con nostalgia, ma sempre con un bel ricordo.<br />

La durezza del lavoro non mortificava le sue memorie, evidentemente<br />

c’era una sopportazione della fatica diversa da quella attuale. Angelina ci ha<br />

dato anche molte ricette che a volte prepariamo per gli ospiti dell’agririfugio,<br />

pensiamo di raccoglierle tutte in un volumetto.<br />

Non solo l’edificio, ma l’intero lavoro di recupero che abbiamo fatto,<br />

sia del paesaggio, sia delle produzioni, è avvenuto sulla base di una ricerca<br />

storica. È stata curata, in parte, da un giovane che ha svolto un dottorato di<br />

ricerca in storia medioevale all’Università di Torino, con una ricostruzione<br />

delle vicende del territorio, dei monaci benedettini e l’individuazione delle<br />

coltivazioni che hanno caratterizzato l’area nel corso degli anni. Al fine di<br />

individuare per la nostra azienda un impiego produttivo dei terreni compatibile<br />

con la natura e la storia di San Fruttuoso, abbiamo provato a ridisegnare<br />

l’evoluzione dell’ecosistema agrario locale, la cui forma attuale è il risultato<br />

di un uso cambiato più volte nel tempo. L’uliveto che abbiamo recuperato<br />

è uno dei più antichi della zona, giacché proprio i benedettini dell’abbazia<br />

hanno diffuso l’olivicoltura in tutto il Levante ligure, per cui oltre a essere<br />

un elemento che caratterizza l’ambiente, è la testimonianza di un patrimonio<br />

storico importante».<br />

Sono veramente suggestivi gli alberi di ulivo che s’inerpicano lungo le<br />

fasce che mi mostra Andrea: «Questo uliveto è stato impiantato intorno al<br />

1400 dai monaci benedettini. Vivevano qui sotto, nell’Abbazia che risale<br />

all’anno mille, ora patrimonio del FAI. Sebbene alcune piante siano state<br />

colpite dalle gelate, altre dagli incendi, la ceppaia è ancora quella originale.<br />

Dopo il nostro recupero, le piante stanno entrando pian piano in produzione.<br />

I primi anni abbiamo ottenuto circa 300 litri d’olio, ma progressivamente il<br />

raccolto aumenta. In teoria abbiamo 1200 alberi, ma ci sono degli uliveti che<br />

non abbiamo ancora pulito e che abbiamo intenzione di bonificare.<br />

Facciamo la raccolta delle olive a mano. Dalla parte più alta le portiamo<br />

a spalla giù fino al porto, mentre la parte bassa è servita da una monorotaia<br />

che abbiamo intenzione di estendere fino all’agririfugio. Dal porto di San<br />

Fruttuoso in barca le trasportiamo fino a Sestri e, quindi, al frantoio. Contiamo<br />

di avere presto un frantoio a San Fruttuoso, recuperandone uno antico,<br />

dove effettuare la frangitura delle olive con la tecnica tradizionale grazie al<br />

restauro della vecchia attrezzatura. Abbiamo anche un finanziamento per<br />

realizzarlo, ma il locale è del Comune e la burocrazia non ci assiste. Nello<br />

stesso posto vorremmo aprire anche un punto vendita dei prodotti aziendali,<br />

visto che ci sono molti turisti».<br />

Mentre conversiamo qualche sparuto escursionista passa lungo il sentiero<br />

che da Pietre strette arriva giù fino al porto di San Fruttuoso. La stradina<br />

attraversa il giardino dell’agririfugio, segno evidente della forte apertura<br />

della cooperativa verso l’esterno. Qualcuno si ferma a chiacchierare, qualcun<br />

altro a prendere un caffè.<br />

Lascio che Andrea termini i suoi lavori di riparazione, mentre entro in<br />

casa per incontrare la sua compagna. Emanuela è del ’77, si è unita solo in<br />

seguito alla cooperativa, aderendo con entusiasmo al progetto. Si definisce<br />

una persona pratica e certamente non si perde d’animo di fronte ai disagi del<br />

territorio, asprezze che rappresentano in definitiva il segreto per preservarne<br />

la bellezza. Quando mi vede sopraggiungere esclama: «Brava, non tutti<br />

riescono ad arrivare con facilità fin quassù. Io sono salita fino al nono mese<br />

di gravidanza, ma sono abituata, per arrivare a casa nostra bisogna fare 690<br />

gradini. È un po’ come vivere al trentaduesimo piano senza ascensore. In<br />

linea d’aria la nostra abitazione è vicina, si trova giusto dietro il costone, in un<br />

borghetto che dà sulla costa di Genova. Quando Andrea è andato a viverci<br />

c’erano degli anziani che ci stavano tutto l’anno, ora siamo rimasti solo noi, il<br />

custode della chiesa e un ragazzo».<br />

Emanuela, cullando tra le braccia la piccola Luce, che ogni tanto richiama<br />

con energia la dovuta attenzione, mi racconta: «Conosco Andrea da quattro<br />

anni, proprio grazie alla cooperativa. Ci siamo incontrati in occasione<br />

della presentazione della loro esperienza nella bottega del commercio equo<br />

e solidale con cui collaboravo. Ero appena tornata dal Molise, dove avevo<br />

partecipato a un progetto di sostegno alle popolazioni terremotate. Lì avevo<br />

stretto amicizia con dei ragazzi molto legati alla loro terra natale e all’agricoltura,<br />

uno era contadino, l’altro assistente sociale. In Molise vivevo in una<br />

realtà rurale, le cui radici <strong>contadine</strong> erano molto sentite, ognuno si produceva<br />

l’olio, il vino, insomma si faceva le proprie cose. Io, al contrario, ero stata in<br />

giro un po’ di anni senza aver mai avvertito un grosso attaccamento alla mia<br />

terra e quell’esperienza mi ha spinto a riflettere sulle mie radici. Ho capito<br />

di essermi un po’ stancata di tanto girare, avevo voglia di ritrovare la mia<br />

terra e così sono tornata in Liguria. Una volta a casa, conoscere i soci della<br />

cooperativa è stata un po’ un’illuminazione. Dove sono nata mi sono sentita<br />

sempre un pesce fuor d’acqua per il mio modo di vedere le cose. In più, i soci<br />

sono dei liguri un po’ atipici, sono stati subito molto accoglienti. Devi sapere<br />

che il ligure all’inizio è un po’ chiuso, poi con il tempo e la fiducia le cose<br />

cambiano. Non ho delle radici agricole, sebbene i miei nonni fossero agricoltori,<br />

gestivano un mulino. Mi sono avvicinata alla cooperativa pensando di<br />

aiutarli a sviluppare il loro progetto, giacché ho una formazione come agente<br />

di sviluppo locale. Dopo la laurea in Scienze politiche e l’anno di volontariato<br />

sociale in Kosovo, dove mi sono occupata di educazione alla pace, ho fatto

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