Vite contadine - Inea
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126 MONICA CAGGIANO<br />
COLTURE E CULTURE ALL’OMBRA DEL MEDITERRANEO<br />
127<br />
andare all’alba sul trattore. Il piacere di una semina e di veder crescere una<br />
pianta, sono soddisfazioni che non ti dà nessuno. Quando parlavo con i miei<br />
“conoscenti di città” non capivano, mi dicevano: “Ma come, lavoravi in una<br />
casa editrice, con cento persone di venti Paesi”. Ero in mezzo a due mondi. I<br />
contadini di qui dicevano: “Vabbè sarà una un po’ bizzarra, però si dà da fare,<br />
la mattina alle 6 sta lì”. Certo vedevano che facevo delle scelte un po’ diverse<br />
dalla loro tradizione, soprattutto sul biologico. Con Giovanni, ad esempio,<br />
c’è stato un bel confronto sui metodi biologici. Ho dovuto superare diverse<br />
sue resistenze. All’inizio era scettico, però aperto al confronto, fino a quando<br />
una volta mi ha detto: “Ho capito che cos’è sto biologico, è come prima della<br />
guerra”. Certo, ha ancora delle chiusure, però riconosce che alcune innovazioni<br />
che ho portato all’azienda e che ho spinto con forza hanno apportato un<br />
miglioramento.<br />
È molto interessante il passaggio delle conoscenze, è un tema che vorrei<br />
affrontare più nello specifico, riflettendo sull’interazione che c’è nel trasferimento<br />
tra la generazione precedente alla guerra, che oramai è in via “di dismissione”,<br />
e la nuova. In Italia c’è stato un salto nella generazione in mezzo,<br />
c’è più di frequente il passaggio dai nonni ai nipoti, a volte virtuali.<br />
Nei rapporti tra il vecchio e nuovo, il linguaggio ha un’importanza<br />
fondamentale. La comunicazione è essenziale per ricucire i distacchi generazionali.<br />
Una volta ho chiesto consiglio a un amico esperto di aziende bio. Ero<br />
all’inizio della mia attività. Dopo una visita all’azienda, mi ha fatto un elenco<br />
delle cose che avrei dovuto fare in cinque anni per passare al biologico, ma<br />
soprattutto ha parlato con Giovanni e gli ha fatto capire, nel suo linguaggio,<br />
che cosa dovevamo fare, senza urtare la sua suscettibilità. Giovanni conosce il<br />
territorio, la storia degli alberi e della terra, era importante renderlo partecipe<br />
delle scelte aziendali e parlargli nel suo stesso linguaggio.<br />
La cosa bella è successa quando sono venuti i miei amici e i ragazzi dei<br />
progetti, con cui abbiamo creato una squadra per la raccolta, composta da<br />
persone che all’inizio avevano tra i 25 e i 35 anni. Ormai è una squadra consolidata.<br />
Giovanni viene sempre a fare le raccolta, ma ha una certa età, va<br />
lentamente, mentre i ragazzi di 25 vanno come treni. Tra i ragazzi e Giovanni<br />
si è costruito un bel rapporto, uno di loro lo chiama Corino, piccolo cuore. Il<br />
mio maestro, in questo modo, si sente un po’ compensato nel suo dramma<br />
di non poter trasmettere il proprio sapere. In questo gruppo, ci sono anche<br />
due amici stranieri, con cui ha legato molto. Mi sembra che gli stranieri, in<br />
generale, siano più rispettosi degli italiani, nel linguaggio, nel modo di porsi,<br />
verso le vecchie generazioni. In alcuni Paesi in un certo senso sono più vicini<br />
per mentalità ai nostri anziani, ad esempio prima di buttare si ripara, così<br />
come fa Giovanni con le sue cose. Da lui ho imparato anche l’arte di riciclare<br />
tutto; ad esempio, in questa casa il pane non viene mai buttato, va a finire alle<br />
sue galline e poi ritornano le uova. Mi dice sempre: “Voglio vedere come fate<br />
tutti quanti se un giorno finisce il petrolio, io il mio bell’aratro lo conservo<br />
sempre là, pronto all’uso in caso di necessità”.<br />
Giovanni ha chiaro il senso del limite. Mi ricordo una volta che preparavamo<br />
la passata di pomodori, mi disse: “per due quintali di pomodori non ho<br />
bisogno della macchina elettrica, perché ce la posso fare a mano”. Quest’affermazione<br />
sarebbe incomprensibile ai più che oggi usano i mezzi meccanici<br />
sempre, anche quando non c’è una reale necessità. Io apprezzo il suo modo di<br />
ragionare, ma le nuove generazioni no: siamo nell’età dei telefonini.<br />
Giovanni ha più di ottant’anni, appena mi vede mi offre subito un bicchiere<br />
di vino bianco: “Bevi! Un bicchieretto di vino fa bene allo spirito e al<br />
lavoro”. Mentre, come d’abitudine, consuma il pranzo che gli ha preparato<br />
la moglie nella sua Ape gialla, mi racconta nel suo dolce dialetto perugino:<br />
“Noi altri il mi babbo ci ha imparato tutto. Da quando ero piccoletto, dopo la<br />
scuola il babbo mi diceva: ‘Viè co me, andiamo a potà gli olivi’. E io andavo co<br />
lui, prima guardavo cogli occhi, poi ho cominciato a potà, ora so potà pure a<br />
occhi chiusi. In campagna facevo tutto, la fatica era la fatica, il lavoro si deve<br />
imparare da piccoli, non da grandi, bisogna essere abituati al lavoro della<br />
campagna e ora anche alla solitudine. Prima invece era un’allegria stare sui<br />
campi, c’erano anche quindici, venti persone, così si vangava a turno, oggi<br />
si andava da un contadino, domani dall’altro. Le donne cantavano, c’era<br />
allegria. Certo, toccava alzarsi la mattina appena giorno e si stava sul campo<br />
fino al tramonto, si lavorava tutti”.<br />
Poi Giovanni mi racconta di suo padre, che in guerra impastava ogni<br />
giorno il pane per 900 soldati; della fame: “Prima si mangiava quello che<br />
c’era, se si prende si spende, i debiti non bisogna farli”, dei suoi zoccoli di<br />
legno nuovi, che sulla strada facevano tic tac e duravano anni; di quando ha<br />
nascosto dei partigiani tra gli ulivi, della mezzadria, delle piante antiche, di<br />
quando portavano alla vendita l’olio, “e allora l’olio era olio, mentre oggi è<br />
acqua”. Poi dall’Ape tira fuori degli strumenti di legno: “Qui c’è la vanga, la<br />
zappa, ci ho fatto il manico da me. Fò da me tutta la roba di legno, i manici<br />
che faccio io, sono di una qualità di legno che non se schianta e durano anni,<br />
mica come quelli cinesi che trovi nei negozi”».<br />
Le affascinanti narrazioni di Giovanni ripercorrono la storia di un secolo,<br />
un patrimonio di cultura orale che lentamente si va perdendo, a cui Costanza,<br />
a suo modo, sta provando a dare continuità. È interessante vederli potare<br />
assieme gli olivi, colpisce il reciproco rispetto della loro diversità.<br />
L’azienda gestita da Costanza comprende 3,5 ettari di uliveto da olio,<br />
un ettaro di orto in pieno campo e tre di erba medica o cereali in rotazione,<br />
come lei stessa mi spiega: «L’uliveto è in tutto tre ettari e mezzo, di cui un<br />
ettaro comprende il “piccolo” piantato nel 2003, dedicato alla Palestina, e il