SUONO n° 477
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DAVID BYRNE<br />
per orchestra, dal balletto alle installazioni d’arte: si pensi ad esempio<br />
al suggestivo esperimento di qualche anno fa, quando Byrne trasformò<br />
la Roundhouse di Londra in una gigantesca “macchina sonora”, in cui<br />
tutte le “appendici timbriche” venivano pilotate da un vecchio armonium<br />
posizionato al centro della struttura. In ambito strettamente musicale,<br />
la sua ultima produzione è invece rappresentata dalla collaborazione<br />
con la giovane cantante e polistrumentista statunitense Annie Clark, in<br />
arte St. Vincent, con cui ha pubblicato nel 2012 un album intitolato Love<br />
This Giant, e con cui sarà in tour nel nostro paese all’inizio di settembre.<br />
Eppure, quando si pensa a David Byrne, è impossibile non vederselo comparire<br />
davanti agli occhi immerso in quel completo di lino “oversize” che<br />
campeggiava sulla copertina di Stop Making Sense, oppure impegnato<br />
nella surreale e calcolata gestualità che ha reso celebre la riproposizione<br />
di Once In A Lifetime<br />
essersi ispirato ai predicatori americani. La storia della big suit, come<br />
era chiamata dallo stesso leader<br />
dei Talking Heads, è abbastanza<br />
curiosa: l’idea di indossare un<br />
abito gigantesco nacque una sera<br />
in un ristorante di Tokyo, dove<br />
David era a cena con la sua futura<br />
moglie, Adelle Luiz, e con lo<br />
stilista Jurghen Lehl. Byrne, che<br />
era un grande appassionato della<br />
cultura giapponese, manifestò ai<br />
due l’intenzione di indossare sul<br />
palco, per il nuovo tour della band,<br />
una specie di “costume”, ispirato a<br />
quelli, estremamente geometrici,<br />
del teatro Kabuki. Tracciò delle<br />
linee sul tovagliolo e disegnò un<br />
personaggio caratterizzato da un<br />
enorme abito squadrato, così sproporzionato<br />
rispetto al corpo che la<br />
sua testa sembrava una piccola<br />
pallina. “Volevo prendere quel-<br />
<br />
nostra cultura, ad esempio sostituendo il costume di scena con un<br />
completo occidentale, giacca e cravatta. Mi affascinava di più l’idea<br />
di prendere degli oggetti dell’uso quotidiano e deformarli, piuttosto<br />
che creare qualcosa di totalmente immaginario. Prendete un classico<br />
completo da uomo, rendetelo gigantesco e fatelo indossare a una<br />
persona normale... cosa può rappresentare Un uomo d’affari che sta<br />
scomparendo all’interno della sua uniforme, che sta appassendo... o<br />
magari è il vestito che se lo sta divorando”<br />
stata da sempre la chiave principale della musica e dei testi dei Talking<br />
Heads, quella di prendere ispirazione dal quotidiano, dalle piccole cose<br />
<br />
ingigantendone la portata In più, l’idea di indossare in scena un abito<br />
molto più grande di lui permetteva a Byrne di veicolare al pubblico un<br />
altro messaggio che gli stava particolarmente a cuore: “Volevo che la<br />
mia testa sembrasse più piccola, e il modo più semplice per ottenere<br />
questo risultato era rendere il mio corpo più grande. La musica è una<br />
<br />
e a capire cosa deve fare prima ancora che sia la testa a dirglielo”.<br />
Contrariamente a quello che molti pensano, la sceneggiatura e il concept,<br />
sia scenico che narrativo, di Stop Making Sense, non fu un parto del<br />
regista Jonathan Demme. Fu infatti lo stesso David Byrne ad elaborare<br />
per il tour di Speaking In Tongues una nuova idea di concerto, basato ad<br />
esempio sull’allestimento in tempo reale del palcoscenico su cui la band<br />
era chiamata ad esibirsi: “Se il sipario si apre e dietro tutto è già pronto –<br />
spiega Byrne – non c’è più molto da fare. L’idea era quella di raccontare<br />
in un certo senso una storia del gruppo e organizzare un crescendo<br />
che rendesse il concerto via via sempre più intenso e drammatico”. Per<br />
questo motivo lo spettacolo iniziava con il solo Byrne che eseguiva la<br />
celebre Psycho Killer alla chitarra<br />
acustica, accompagnato da una<br />
base di batteria elettronica (una<br />
Roland TR-808). L’audio della<br />
base, gestito dal mixer di sala,<br />
sembrava provenire direttamente<br />
da uno stereo che lo stesso Byrne<br />
aveva portato con se sul palco e<br />
poi azionato manualmente, come<br />
se stesse riproducendo una cassetta<br />
registrata in precedenza. Da<br />
quel momento, i brani successivi<br />
in scaletta vedevano aumentare<br />
progressivamente il numero di<br />
<br />
ad arrivare ad avere sul palco la<br />
line up completa, comprendente,<br />
oltre ai quattro Talking Heads storici,<br />
anche gli altri cinque musicisti<br />
aggiunti, e dando vita a quella miscela<br />
inconfondibile di funk e rock<br />
che faceva scatenare il pubblico. Ma soprattutto, nell’ideazione dello<br />
spettacolo Byrne riuscì a conciliare mirabilmente l’esigenza di ricondurre<br />
tutte le canzoni in scaletta a un contesto scenico omogeneo, eppure a<br />
caratterizzare ogni pezzo da un punto di vista visivo ben preciso: questo<br />
fu reso possibile da un approccio teatrale che privilegiava sul palco<br />
l’utilizzo esclusivo della luce bianca, ma indirizzata verso i musicisti da<br />
sorgenti e angolazioni differenti (durante What A Day That It Was, ad<br />
esempio, le luci erano posizionate sotto i musicisti, proiettando le loro<br />
ombre ingigantite sullo sfondo), e attraverso la presenza di parti di sce-<br />
<br />
This Must Be The Place. Spesso durante il balletto<br />
<br />
questo fortunatamente non accadde quando vennero effettuate le riprese<br />
<br />
<strong>SUONO</strong> giugno 2013 73