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ha trovato un appendiabiti addossato alla parete. E puzza.
Una grande sala da pranzo: le pareti erano nascoste da
cassette piene di frutta e verdure andate a male. E bottiglie
vuote di ogni genere. E barattoli di latta. Giornali
ammucchiati. Polvere, e blatte. Puzza.
Al centro della sala: un divanetto marrone, e la nobildonna,
avvolta in uno scialle a quadri, morbido: morta.
Veramente morta. Ma, ancora, non puzzava.
La camera da letto della Donna, attigua al salone: da
un armadio aperto scivolava fuori, a mezz’aria, una valigia:
strapiena di monete, coniate nell’ultimo secolo.
Dentro l’armadio: abiti tarlati, velette muffite.
La puzza viene da uno stanzino. La puzza più violenta.
La peggiore.
Lo stanzino: resti di un uomo – il Mendicante di Sant’Antonio
– con le gambe recise dal tronco, e il ventre
aperto e svuotato a pugnalate, e i coglioni inchiodati al
muro, come un altarino.
La sala da pranzo, di fronte al divanetto della Donna:
un tavolino basso, di legno.
Sulla polvere del tavolino: un pezzo di carta, bianco,
stemmato: una busta.
Sulla busta, parole. Un nome (Luca Cini) e una professione
(marinaio).
In seguito, la polizia ha dipanato una parte della matassa:
l’unico Luca Cini di cui si fosse mai sentito parlare,
era un tale, stato una volta a Cagliari, nato in una città
oltremare, e ucciso nella guerra di spagna.
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Dentro la busta, una lettera:
“Caro Luca,
la primavera è vicina.
Malgrado il freddo, e per quanto mi resta da vivere, non
potrò mai perdonarti.
14 febbraio 81”
Ti ho narrato i Fatti, Signore.
Appena più oltre esistono illazioni, e storie sballate.
Particolari piccanti, agitati dai giornalisti della città
bianca, che razzolano con gusto nella cronaca nera.
I Fatti, però, sono questi.
Nient’altro.
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