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Quella donna è entrata, allora, per la prima volta.<br />
Era più bassa che alta, più magra che grassa. Vestiva una<br />
tunica grigia lunga fino ai piedi, e portava sul capo un fazzoletto<br />
grigio che nascondeva qualunque traccia di capigliatura.<br />
Grigio smorto, era il colore. Grigio cenere. Grigio<br />
della morte che accorre senza fretta, comune.<br />
Si è guardata tutt’attorno, la donna. Aveva occhi grigi<br />
sfuggenti e semichiusi, brillanti, però, come il fondo di un<br />
pozzo.<br />
È esplosa in una risatina nevrotica, prima di fuggire.<br />
“È matta” ha mormorato un tale, qualche tavolo più in là.<br />
“Tornerà” ha commentato – parco – l’oste.<br />
Dopo qualche ora, esaurito il mezzo litro, ho ordinato<br />
un piatto di fave fresche bollite, condite di solo sale e cipolla.<br />
E un altro mezzo litro.<br />
Ho mangiato lentamente, godendo il gusto rude e semplice,<br />
elementare e acuto, delle fave, e l’aroma di cipolla<br />
fresca.<br />
Ho bevuto con abbondanza. Fino a sentirmi l’anima<br />
morbida. Al terzo mezzo litro anch’io avrei volentieri frugato<br />
sotto le gonne di Giovanna, la cuoca nordica, per ritrovare<br />
il senno che avevo perduto tanto tempo prima,<br />
forse il primo giorno di sole della mia vita di recluso volontario.<br />
Così trascorrevano le ore in quella bottega di vino. Lente<br />
e dolci, da scordare.<br />
I clienti agli altri tavoli cambiavano in continuazione.<br />
Stavano seduti per un’ora, due. Chiacchieravano a bassa<br />
voce, e sorbivano con moderazione, poi sparivano. Sosti-<br />
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tuiti ai tavoli da altri, che si distinguevano dai primi per il<br />
differente colore del basco, per la minore quantità di fango<br />
sugli scarponi di cuoio ingrassato, per un più acuto<br />
profumo di sapone Sole – che ogni tanto riusciva persino<br />
a sfondare il muro spesso di puzza di vino, di terra, di sudore,<br />
di pane, di fave e cipolle.<br />
Non entrava più il sole, dalla porta d’ingresso, e l’oste<br />
aveva acceso due tubicini al neon coperti di cacca di mosche,<br />
carte moschicide, mosche morte e vive, e, ai tavoli,<br />
uomini giocavano a terziglio con certi vecchi consunti<br />
mazzi di carte, quando la donna è riapparsa.<br />
È riapparsa, grigia. Ancora si è guardata attorno, con<br />
quegli occhi lucidi da luna fredda.<br />
Questa volta non è fuggita. Si è avvicinata all’oste, che<br />
ha versato per lei un bicchiere di bianco.<br />
Poi ha sussurrato – ma stavamo tutti zitti a guardarla, e<br />
l’abbiamo sentita, come se urlasse – “Manicomio. Alessandria,<br />
Piemonte.<br />
1953. E tutti gli anni dopo il 53. Per vent’anni. Lo sai come<br />
la chiamavano, Concetta Ribesi, che aveva ucciso il<br />
marito e tre figli, a Messina? Stalin, la chiamavano. Stalin,<br />
dicevano, vieni qui e sciacqua il cesso. Cosa ne hai fatto,<br />
dei bambini, Stalin? E ridevano. Manicomio criminale.<br />
Stare attenti la notte. Si avvicinano col buio. Se stai calma<br />
tranquilla ti toccano. Lasci toccare: chi altro ti tocca, in<br />
quei posti? Se sei agitata, meglio: ti spogliano, e ti toccano<br />
duro. Pestano. Finché stai nuovamente calma. C’ero anch’io.<br />
Con Stalin. Alessandria. Altro che vino. Manicomio<br />
criminale. Vent’anni.”<br />
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