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avrà fatto un passo avanti, per nostro sforzo, né un passo<br />

indietro, o, se l’ha fatto, noi non c’eravamo, stavamo seguendo<br />

una pratica.<br />

Il mondo è incomprensibile. Non il tragitto della pratica,<br />

che in se è solo piccolo specchio di numerose scrivanie.<br />

Insensatezza clandestina, di fronte alla follia che ci<br />

sta attorno.<br />

La pratica, comunque, dammela. Forse conosco il trucco<br />

per farla sparire per sempre dalla tua vita.”<br />

L’ometto minuto, il corvaccio Gioacchino, carezzò la<br />

pratica, con un sorriso di commiato, poi la ridusse in mille<br />

minuscoli pezzi, la infilò nel cestino della carta straccia,<br />

la schiacciò con un fermacarte, si pulì le mani come un<br />

assassino si libera del sangue che l’ha imbrattato e rientrò<br />

nel suo silenzio, accovacciato sulla scrivania, le spalle<br />

curve e la faccia incassata sul collo.<br />

Quell’unica volta udirono la sua voce flebile e nitida.<br />

Quell’unica volta e mai più. Non salutava neanche. Mai<br />

un buongiorno, come stai. Mai un buonasera, arrivederci.<br />

Entrava e usciva come un fantasma, infagottato in un<br />

vecchio cappottino marrone voltato e rivoltato.<br />

Entrava, usciva, e sedeva alla scrivania, muto come una<br />

vecchia mummia, timido come una giovane dattilografa.<br />

Gioacchino porta le sue scarpacce nere attraverso vecchie<br />

strade di acciottolato, attraverso vecchissimi vicoli<br />

di terra fra palazzo e palazzo, dal centro alla periferia,<br />

dalla città antica a quella vecchia, nata vecchia quand’è<br />

ancora nuova, tutto attorno, fra la terra e la sabbia, tutto<br />

attorno nella città scura.<br />

214<br />

Accovacciato su se stesso, rasente il muro, Gioacchino<br />

ciabatta attraverso la città, sfuggendo bande di giovani<br />

teppisti accoltellatori, e sfuggendo i posti di blocco. I<br />

posti di blocco fermano soltanto le automobili, non i<br />

vecchietti infagottati nel cappotto che strisciano lungo i<br />

muri.<br />

Gioacchino striscia sulla città, coperto dall’ombra, senza<br />

guardare mai a destra, né a sinistra. neanche si volta<br />

quando un’anziana baldracca lo invita a dormire in una<br />

pensioncina al primo piano di un vecchio casermone popolare<br />

di impiegati comunali.<br />

Gioacchino saluta il portinaio dello stabile 48 C, il vecchio<br />

portinaio di quel palazzo celeste sbrecciato, mai ridipinto,<br />

attorcigliato attorno a un cortile che ostenta i<br />

suoi panni alle finestre.<br />

Il portinaio dello stabile 48 C, risponde da anni al saluto<br />

del vecchietto marrone che rientra alle settemezza<br />

sempre puntualmente ogni sera, eppure, se gli chiedete<br />

in che scala abita quel vecchietto così ben conosciuto,<br />

non ve lo sa dire, perché lo vede soltanto uscire, la mattina<br />

alle sette, e rientrare, la sera alle settemezza, e mai nessuno<br />

si è lamentato di quell’inquilino, e lui mai si è dovuto<br />

sgobbare le scale per portare a quel vecchietto un’ingiunzione<br />

di pagamento, o un avviso di chiamata giudiziaria.<br />

Gioacchino si addentra in un corridoio semibuio, con<br />

grandi finestre bianche, che a malapena lasciano filtrare<br />

la luce del giorno, e di notte a malapena riflettono i fanali<br />

stradali. Gioacchino scende e sale per vecchie scale sudi-<br />

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