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Codice della Cucina Lombarda - BuonaLombardia.it - Regione ...

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kebab, focaccerie e piadinerie…). Cultura commerciale, quella<br />

dei marchi e delle marche, è solo una faccia del sistema alimentare;<br />

sembra ergersi contro le mode, le varietà, le alterazioni, i plagi<br />

e le falsificazioni e proporre una visione retrospettiva e prospettica<br />

rassicurante. Raggiunge, lo sappiamo bene, solo in parte il proprio<br />

obiettivo. L’ident<strong>it</strong>à di un piatto non è diversa da quella di un uomo.<br />

Per accertarla, bisogna fare un passo indietro, osservarla a distanza<br />

storica, ragionando su una modernizzazione del sistema alimentare<br />

che ne è l’ossatura e il divenire. Come tutti i codici, anche quello<br />

<strong>della</strong> cucina lombarda è soggetto a revisione, con la differenza che,<br />

in questa materia, le leggi sono riscr<strong>it</strong>te e plasmate da chi le applica,<br />

casa per casa, trattoria per trattoria. Per quante variazioni si siano<br />

potute registrare in questi quattordici anni, per quanto Milano<br />

e la Lombardia abbiano mutato l’hab<strong>it</strong>us e il proprio modo<br />

di pianificare il futuro, esiste una idea di cucina e delle pratiche<br />

connesse che tengono duro e si ripropongono domandando<br />

una revisione cauta, delle correzioni prudenti.<br />

A DISTANZA STORICA<br />

La prima scelta, nel configurare la storia <strong>della</strong> cucina lombarda,<br />

è quella degli occhiali che dobbiamo inforcare per leggerla.<br />

Dobbiamo individuare un cuoco del XV secolo come Maestro<br />

Martino de Rossi (ticinese <strong>della</strong> valle di Blenio) e, identificando<br />

ingredienti e vivande del suo De re coquinaria, ricostruire<br />

INTRODUZIONE - 6<br />

con coloro che ne hanno raccolto l’ered<strong>it</strong>à, con testi di corte<br />

e di grandi case, sino a noi, le viciss<strong>it</strong>udini delle ricette lombarde?<br />

Oppure scegliamo le cucine milanesi del XIX secolo con le loro<br />

attestazioni stampate e i t<strong>it</strong>oli di piatti riconoscibili, e quelle più<br />

arretrate, più modeste <strong>della</strong> provincia, spesso identificabili con<br />

certezza solo nel XX secolo? O ancora consideriamo il codice<br />

<strong>della</strong> cucina lombarda come qualsiasi corpus di leggi valide oggi<br />

e vigenti? Queste tre vie sono tutte utili: la prima, ravvisando<br />

l’antico ceppo da cui si diramano le formule, mutevoli e controverse;<br />

la seconda, rest<strong>it</strong>uendoci quella memoria retrospettiva che ci permette<br />

di vedere in un passato prossimo, in una lingua a noi familiare,<br />

cibi e bevande d’uso; la terza, nel ricordarci che, di una cucina,<br />

importanti sono la sua attuazione, nelle case e nei locali pubblici,<br />

e gli es<strong>it</strong>i sia pratici che didattici.<br />

Un solo abbaglio va ev<strong>it</strong>ato: quello di r<strong>it</strong>enere il passato lontano più<br />

ver<strong>it</strong>iero, a scap<strong>it</strong>o di un passato prossimo inquinato dalla modern<strong>it</strong>à<br />

e dalle profonde trasformazioni nei campi più diversi quali le<br />

energie, le macchine o i consumi. Ciò premesso, gli occhiali migliori<br />

sono quelli per la media distanza. Le costoline di v<strong>it</strong>ello fr<strong>it</strong>te alla<br />

milanese sono presenti nella Gastronomia moderna del Sorbiatti<br />

(1855) con questa ricetta che è già la nostra:<br />

“Allest<strong>it</strong>e sottilmente sei costoline con garbo, immergetele nell’uovo<br />

sbattuto, indi imborragiatele di pane, fatele soffriggere a fuoco lento<br />

da una parte a color biondo, rivolgetele, salatele, e dopo due minuti<br />

serv<strong>it</strong>ele sul piatto asperse del loro burro, con del limone a parte.”<br />

Siamo in epoca anteriore all’un<strong>it</strong>à d’Italia, ma molte altre<br />

preparazioni, per esempio la polenta taragna o i pizzoccheri<br />

valtellinesi, tarderanno a entrare nei ricettari, molto dopo di essa,<br />

e saranno noti solo nella Guida gastronomica d’Italia del 1931.<br />

A legger le statistiche redatte da Carlo Cattaneo o da Visconti<br />

Venosta, la cucina in Valtellina, agli occhi di un ricco milanese,<br />

era una cosa miserrima, come l’economia valligiana e montanara<br />

sacrificata interamente all’esportazione dei formaggi verso<br />

il Milanese. In questa tipologia provinciale e marginale, ricadono<br />

molti piatti, e solo le codificazioni fasciste e repubblicane<br />

li valorizzeranno, portando a conoscenza, come consuetudinari,<br />

modi di cucinare borghesi festivi o contadini occasionali, di recente<br />

assunti come cardini <strong>della</strong> cultura di terr<strong>it</strong>orio. Una delle costanti<br />

<strong>della</strong> gastronomia dopo l’un<strong>it</strong>à d’Italia è, paradossalmente,<br />

la cresc<strong>it</strong>a dei patrimoni provinciali e locali, a scap<strong>it</strong>o dei piatti<br />

nazionali; le rival<strong>it</strong>à fra casoncelli o ravioli di zucca o mostarde<br />

sono campanilistiche solo all’origine, quindi animano gli assetti<br />

regionali ed oggi vengono proiettate in scenari europei<br />

e internazionali. La cresc<strong>it</strong>a <strong>della</strong> ricchezza, il moltiplicarsi delle<br />

attiv<strong>it</strong>à produttive, hanno portato nelle case lombarde e hanno<br />

ispirato alla ristorazione piatti come i pizzoccheri, già percep<strong>it</strong>i<br />

come indici <strong>della</strong> modestia e <strong>della</strong> auster<strong>it</strong>à delle case meno povere,<br />

quelle che riuscivano a festeggiare con farine miste, burro e formaggi<br />

da cottura. La seconda difficoltà di ordine storico sta nell’approccio<br />

al presente. Una volta identificati piatti con nomi dialettali e <strong>it</strong>aliani<br />

e le rispettive prime datazioni, quanto di questa cultura gastronomica<br />

sopravvive oggi e come? C<strong>it</strong>avamo il petto impanato di tacchino,<br />

ma potremmo riaprire la controversia del risotto alla milanese<br />

o dei casoncelli condivisi e rivali, da Bergamo a Brescia, e ricordare<br />

che i piatti di riso o di pasta fresca sono variabili costantemente<br />

rimesse in gioco nel tempo. Chi usa oggi il midollo di bue per<br />

il risotto alla milanese? E come si comportava alla fine del XX<br />

secolo quando le leggi lo avevano vietato? Ma nessuno oggi ricorda<br />

più i piatti impover<strong>it</strong>i o alterati dall’incubo <strong>della</strong> mucca pazza.<br />

Si dirà che a porsi troppe domande ci si rovina l’appet<strong>it</strong>o, eppure il<br />

mestiere di storico è quello di fare emergere le contraddizioni<br />

e trovare risposte ragionevoli solo se esse sono consent<strong>it</strong>e da carte e<br />

piatti. Gran parte del materiale qui raccolto ed esposto deve ricevere<br />

il beneficio di inventario di modal<strong>it</strong>à di consumo che tendono<br />

a rarefarlo o di proposte commerciali, turistiche e sciistiche nel caso<br />

dei pizzoccheri, che, al contrario, lo enfatizzano, con la conseguente<br />

delusione di non vederlo presente in ricettari di un secolo fa.<br />

La trattazione sarà dunque a vista lunga o corta secondo i casi,<br />

tenendo presente sia l’assenza di documenti che le falsificazioni<br />

documentarie. La cucina infatti, non è nata e cresciuta solo nei<br />

palazzi dei re e dei principi, come oggi non nasce e non cresce nei<br />

soli ristoranti a tre stelle, ed è molto più facile inventare le leggende<br />

che non raccontare il silenzio che circonda l’origine di un dolce.<br />

Quella di Alboino che, durante l’assedio di Pavia, venne “rabbon<strong>it</strong>o<br />

e distolto dai suoi propos<strong>it</strong>i di vendetta dal simbolico dono di un<br />

pan dolce” (ancora c<strong>it</strong>ata nella edizione del 1990 <strong>della</strong> Grande<br />

enciclopedia illustrata <strong>della</strong> gastronomia di Marco Guarnaschelli

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