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Semplice a dirsi, difficile a farsi. Fare. Fare cosa, poi? Aveva sempre aspirato a fare qualcosa, piuttosto che<br />
sapere. Non aveva mai saputo come fare per sapere. Sapere le cose che gli dicevano di studiare a scuola, per<br />
esempio. Già, la scuola. Valori, concetti, idee, imperativi categorici. Non aveva mai compreso come<br />
funzionasse il tutto. Cosa significassero quelle aule. Per lui trappole, tante trappole anche per quei poveri<br />
topi di alunni, insegnanti, uomini e donne, persone e personaggi di una realtà che era un artifizio, un<br />
inganno, una menzogna. Volevano capire, studiare, analizzare, insegnare la vita. Erano, invece, soltanto<br />
ridicoli fantasmi per un palcoscenico troppo piccolo per le loro esibizioni. Una sofferenza nell’animo e nel<br />
corpo, nella mente e nello spirito. Per giorni, per mesi, per anni. L’interrogazione contrabbandata per<br />
conoscenza. La verifica venduta per verità. <strong>Il</strong> giudizio svenduto dall’impressione. Lo scorrere degli occhi<br />
sui nomi dell’elenco. L’appello, un gioco alla roulette russa. Un disastro, una vergogna quotidiana. Incubi<br />
notturni, fughe nel nulla. Un foglio, una pagina, un paragrafo, una data, una espressione algebrica, un<br />
disegno astruso, un calcolo impossibile. Giorno dopo giorno, alla ricerca del significato, del senso, del fine<br />
ultimo di tutta quella sceneggiata.<br />
Ma perché non capiva, non comprendeva quanto i suoi compagni sembravano capire senza difficoltà? La<br />
voglia di studiare, leggere, ripetere, elaborare, ricercare, classificare, elencare. Perché poi? Non lo sapeva. A<br />
loro non interessava conoscere il perché del suo non capire. Lui era solo il problema. Ed era soltanto suo.<br />
Quanto meno di suo padre. Che facesse qualche altra cosa! Se non era in grado, facesse un altro mestiere.<br />
Non era detto che studiare fosse obbligatorio. Lo avevano detto al genitore. Non era capace. Un poco<br />
stupido, forse. Non studiava, non voleva, non sapeva. Poteva trovarsi un lavoro altrove. Loro parlavano in<br />
cattedra. Vaghi, presuntuosi, tronfi e straccioni nell’animo. Non leggevano, declamavano. Non parlavano,<br />
arringavano. Non spiegavano, pontificavano. La parola era la regina. <strong>Il</strong> senso era lo straniero. Quella sua<br />
compagna, la più bella, la più brava, la più corteggiata, chissà se davvero capiva tutto. Perché, poi, sarà<br />
finita in convento da qualche parte nel nord? Ma Alvano non era cattivo.<br />
Le fantasie lo torturavano, lo accusavano delle sue insufficienze. Aveva dei limiti. Era limitato, dunque. <strong>Il</strong><br />
padre se lo portasse altrove, portasse altrove le loro ambizioni. No, non poteva capire, non poteva reagire. E<br />
quelle altre cretinette della classe sempre pronte ad intervenire. A dire che il professore aveva ragione. Che<br />
loro avevano capito. Che tutto era chiaro. L’idea, l’ideale, l’idealismo, l’iperuranio per loro erano luoghi<br />
noti. Con i loro grembiuli neri, puliti ed ordinati. Si, perché quelli erano i tempi del grembiule! Capelli<br />
dorati che profumavano di sesso. Gonne ariose, trecce lunghe, ondeggianti sulle spalle. Seni acerbi, appena<br />
accennati. Dita lunghe ed affusolate. Occhi azzurri. Guance vellutate. L’aveva ancora nella mente. Giuliana.<br />
Un nome magico. Scendeva di corsa dall’autobus. Si guardava intorno con lo sguardo felino che voleva<br />
sembrare un sorriso. Le lentiggini sulle guance. Lui la guardava, la inseguiva con gli occhi, invitandola con<br />
lo sguardo. Lei non lo vedeva nemmeno, come se non ci fosse. Era ieri. Giorni, mesi, anni. Quanti? Dieci,<br />
venti, trenta? Sembrava oggi.