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Il Testimone - Sane Society

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69<br />

38.<br />

La prima volta che lo vidi era mentre apriva la porta del lungo corridoio che portava alla dispensary, la<br />

farmacia. Si chiamava Shabudin. L’ho sempre chiamato Shabu. Aveva poggiato la bicicletta davanti<br />

all’ingresso. Ci salutammo. Mi sorrise mettendo in mostra la sua bianchissima dentatura. Rilucevano i denti<br />

in maniera evidente sulla sua carnagione nera oscurata ancora di più dall’uniforme grigia, con camicia<br />

bianca e cravatta. Ogni infermiere era tenuto ad indossarla. Veniva dal Tanganica ed eravamo stati assunti<br />

quasi contemporaneamente all’ospedale, come assistenti. Lavorava nel reparto farmacia. <strong>Il</strong> suo compito era<br />

quello di fare il giro quotidiano di tutti reparti per distribuire i medicinali ordinati. Usava una bicicletta con<br />

due cestini collocati uno davanti ed uno indietro ripieni di consegne da fare ai cottages che ospitavano i<br />

pazienti. Un compito delicato e di responsabilità perché si aveva a che fare con cartelle cliniche, prescrizioni<br />

e terapie. Lui lo poteva fare, aveva padronanza della lingua avendo frequentato le scuole inglesi a Daar es<br />

Salam capitale dell’allora Tanganica. Dall’unione con l’isola di Zanzibar sarebbe nato lo stato della<br />

Tanzania.<br />

Shabu era un personaggio straordinario al quale Alvano fu legato per molti anni anche dopo che ebbe<br />

lasciato Verulamium. Attraverso di lui ebbe modo di conoscere da vicino molte cose diverse e lontane dalla<br />

sua cultura, dalla sua lingua, dalla sua storia. Alvano si sentiva un europeo nel senso letterale del termine.<br />

Forse un sud-europeo più che un mitteleuropeo, ma solo per ragioni di posizionamento fisico della sua<br />

nascita. <strong>Il</strong> piccolo paese dove era nato, appartenente ad una delle Repubbliche Marinare, gli aveva trasmesso<br />

il senso della scoperta e della ricerca. Era stato verso il Mediterraneo e verso l’Oriente per la Repubblica,<br />

verso il Nord per Alvano.<br />

Da Shabu apprese l’importanza del viaggio da est verso ovest e poi verso nord. Di origine indiana ma<br />

mussulmano di religione, seguace dell’Aga Khan, i suoi lontani antenati si erano trasferiti dal subcontinente<br />

indiano verso il continente africano. Quella gente aveva fatto dell’Africa orientale il suo punto di<br />

riferimento per quanto riguardava le attività commerciali. Gente versata nei traffici, negli scambi e nelle<br />

transazioni aveva subìto pacificamente la legge del colonialismo britannico particolarmente forte sul<br />

continente africano. Nato da una famiglia di commercianti a Daar er Salam, Shabu volle trasferirsi in<br />

Britannia dopo avere ultimato gli studi secondari.<br />

Aveva la stessa età di Alvano quando cominciarono a lavorare insieme in quella “madhouse” come<br />

chiamavamo quel posto. Erano gli anni quelli in cui il sistema sanitario nazionale britannico seppe forse<br />

dare il meglio in termini sanitari e di solidarietà umana, sociale a tanti cittadini bisognosi. In quella parte<br />

della contea di Verulamium c’erano diversi ospedali, sia generali che speciali, che davano la possibilità di<br />

trovare un lavoro a tanti immigrati provenienti dal continente, o da altre parti del Regno Unito come la<br />

Scozia, l’Irlanda o il Galles.<br />

In quello “staff block”, la palazzina del personale, si ritrovavano giovani studenti di quasi tutte le nazionalità<br />

europee. Shabu era l’unico ad avere la pelle scura, non di un colore nero africano, ma indiano. Diventammo<br />

subito amici. Questa amicizia mi costò uno scontro violento con alcuni connazionali i quali mi accusarono<br />

di preferire di essere “amico di un negro” piuttosto che loro. Lui lo seppe e si mise a ridere divertito dicendo<br />

che era abituato a queste discriminazioni nei confronti della sua pelle. Soggiunse anche, forse per fare una<br />

battuta, che gli era capitata la stessa cosa quando frequentava la scuola inglese in patria. C’erano anche degli<br />

studenti bianchi con i quali lui era amico e gli dissero che era un “amico dei bianchi”. Credetti poco alla sua<br />

storia. Col tempo capii che era vera. Quella frase aveva una rilevanza ancora più forte nel caso suo. In paesi<br />

a maggioranza nera, come potevano essere l’India o l’Africa, in pieno colonialismo, essere chiamati “amico<br />

dei bianchi”, dal punto di vista dei nativi, poteva avere conseguenze gravi. <strong>Il</strong> razzismo ha sempre due facce.<br />

Negro, bianco, giallo, sono, comunque, riflessi di colori diversi sulla pelle umana. Ascessi della fantasia,<br />

simboli e metafore che condizionano e bloccano il cervello senza mai costruire. Anche in quei luoghi<br />

estremi della mente umana e della realtà, come poteva essere l’ospedale di Verulamium, c’era chi giocava<br />

con la pelle degli altri. Alvano dovette faticare non poco per adattarsi a quei giochi. In quel posto poi dove<br />

ci si confrontava ogni momento con la domanda finale sempre alla ricerca di una impossibile risposta:<br />

perché?

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