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Che dire poi di quel dito che scorreva sul registro, sull’elenco dei condannati. Era come un fucile puntato<br />
pronto a sparare su di lui e sui suoi compagni. Sarà stata la paura, sarà stata la grossa tazza di latte che sua<br />
madre gli aveva fatto prendere, quel mattino aveva bisogno urge nte di andare in bagno. Sapeva bene che<br />
non poteva uscire, non poteva chiedere una cosa del genere. Era impensabile che un povero cristo potesse<br />
averne voglia soltanto dopo due ore a stare seduti. Si poteva uscire invece solo dopo la terza ora. Cominciò<br />
a contorcersi sul banco, sperando che quel dito che scorreva sull’elenco non si fermasse al suo nome.<br />
Confidava in un momento di distrazione del torturatore per alzare la mano facendo segno di uscire.<br />
Così non fu. Insieme ad altri tre fu chiamato a conferire su quel brano stupido ed astruso scritto da un greco<br />
un paio di millenni prima. Non lo aveva letto né tanto meno tradotto ed analizzato. Lo aveva copiato, al<br />
solito, da Pietro. In piedi, alla destra della cattedra, gli era capitata a fianco Diana. Alta, snella, flessuosa,<br />
prime curve, capelli biondi, occhi azzurri. Poteva sembrare dolce, disponibile, come certamente era<br />
intelligente e preparata. Alvano si era illuso che potesse avere anche un poco di tenerezza per lui. Si<br />
dimostrò, invece, essere soltanto una specie di kapò in un campo di concentramento nazista. Quando venne<br />
il suo turno per tradurre, restò muto e aspettò che lei, che quasi lo toccava col gomito, gli suggerisse<br />
qualcosa, che gli lasciasse dare uno sguardo al quaderno aperto che aveva in mano. Per trovare una risposta<br />
all’analisi che non aveva fatto. Agli sguardi imploranti di Alvano, lei rispose con un sorriso che stava tra il<br />
disprezzo ed il sogghigno. Lui non riusciva a stare fermo sulle gambe. Aveva urgente bisogno del bagno.<br />
Alla domanda del torturatore, rispose chiedendo di uscire. La classe sbottò in una fragorosa risata. E Alvano<br />
non si mosse, mentre il caldo fiotto di liquido cominciava a scendere e a raccogliersi nel pantalone alla<br />
zuava. L’uomo dalla cattedra, inaspettatamente, senza sollevare gli occhi dal libro che aveva aperto davanti,<br />
gli disse di uscire. Un lungo mormorio serpeggiò nella classe. Alvano aprì la porta e uscì. Percorse irrigidito<br />
il corridoio a passi lenti, faticosi, come per non inciampare. Tracciò nel lungo corridoio il suo percorso di<br />
vergogna e di umiliazione. Trovò la porta del bagno chiusa a chiave. Dovette tornare indietro, bussare a<br />
quella del bidello, di fianco alla segreteria e chiederne l’apertura. L’uomo imprecò quando lo vide e gli disse<br />
che non era ancora la terza ora. Poi abbassò gli occhi e vide le sue condizioni. Prese la chiave, lo afferrò per<br />
un braccio e con lui ripercorse il corridoio imprecando. Si fermò a guardare il pavimento bagnato che aveva<br />
appena lucidato. Disse che lo avrebbe riferito in presidenza e che si sarebbero dovuti prendere dei<br />
provvedimenti. Alvano entrò nel bagno, ma non fece niente. Ormai era vuoto. Inzuppato fin nelle scarpe. I<br />
pantaloni avevano trattenuto il liquido ed era come se avesse fatto il bagno vestito. Si sentiva vuoto anche<br />
dentro il suo animo e sentì cadere su di sè tutta la vergogna di quel posto chiamato scuola. Doveva ritornare<br />
in classe in quelle condizioni. <strong>Il</strong> bidello non c’era, né lui lo cercò. Rientrò cercando di non farsi notare. Ma<br />
venne lo stesso accolto da un mormorio. L’aguzzino gli disse di ritornare al suo posto, tanto era inutile stare<br />
alla cattedra in quelle condizioni. Alvano avrebbe voluto sprofondare in quel momento, in quel posto. <strong>Il</strong><br />
tempo e lo spazio del reale avevano avuto il sopravvento sull’ideale. Sarebbe stato sempre così per il resto<br />
dei suoi giorni. Lui non lo sapeva. Ma lo avrebbe imparato presto.