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Camminammo a lungo sotto la pioggia, tenendoci per mano, fermandoci di tanto in tanto sotto i portoni per<br />
ripararci e riprendere fiato. Lei mi aveva fatto capire che potevamo andare su. L’evento stava per avere<br />
luogo. Nel suo imprevedibile italiano mi disse che era stanca di andare ogni sera nel parco sul quale si<br />
affacciava quel grande hotel. Diventava, infatti, sempre più difficile trovare la panchina giusta, libera e<br />
strategicamente posizionata. Varcammo con passo svelto la porta d’ingresso, facendo un cenno di saluto al<br />
portiere che non si curò di noi. Aprii la porta e la rinchiusi dietro di me velocemente. Avevo il cuore che mi<br />
batteva forte in petto, temevo che mi salisse in gola, e mi mozzasse il respiro. Tirai le tende delle due<br />
finestre separate dalla striscia di mobile che faceva da piccola libreria. Un’improvvisa penombra cadde sulla<br />
piccola stanza. Filtravano solo le luci a neon che provenivano dalla strada ai fianchi delle tende. In un<br />
momento me la trovai davanti senza niente addosso. Mi costrinse a fare lo stesso, graffiandomi con le sue<br />
lunghe unghie sulla pelle diventata improvvisamente fragile ed indifesa. Sentii un lungo, prolungato brivido<br />
scorrere lungo la schiena mentre lei mi spingeva con forza sul letto. Non ricordo esattamente cosa accadde,<br />
né quanto durò. Potrei a questo punto inventarmi una bellissima scena erotica. Sarebbe tutto falso. Senza<br />
dubbio eravamo su quella strada. Lei mi aveva intrappolato e non avevo scelta. Anche a distanza di tanto<br />
tempo, mi resta, però, un solo ricordo che mi fa gelare ancora la mente. Quel bastardo bussò con violenza<br />
alla porta e disse che voleva entrare. Doveva prendere delle carte da portare via con urgenza. Lo pregai di<br />
aspettare, lui sapeva che ero con lei. Sapeva quello che stavo facendo. Sapeva che per me era un evento<br />
importante. Sapeva che dovevo farlo. Sapeva che volevo farlo. Sapeva che potevo farlo. Lui sapeva, eppure<br />
disse che avrebbe chiamato il portiere per farsi aprire. Lei si alzò dal letto di scatto. Corse nel bagno. In un<br />
lampo riuscì vestita, portandosi dietro quella scia di profumo. Si fermò davanti a me. Stavo ritto ed<br />
impalato, in mezzo al piccolo corridoio che conduceva al cucinino. Nudo come un verme. Scoppiò in una<br />
fragorosa risata. Saettò alcune frasi al mio indirizzo. Non capii assolutamente nulla di quello che mi disse.<br />
Si aggiustò i capelli guardandosi nello specchio che stava dietro alla porta. Mi guardò di nuovo. Continuò a<br />
parlare. Poi, con la mano destra sollevata, il palmo rivolto verso l’alto, indicò il mio centro con un chiaro<br />
gesto di scherno. Aprì la porta. <strong>Il</strong> bastardo stava là pronto ad attenderla. Risero fragorosamente. La beffa era<br />
stata completata. La porta si richiuse. Andarono via correndo nella tenue luce del corridoio. Sentii come una<br />
coltellata al petto. Mi vestii con calma. Mi sedetti come per riflettere sul letto scompigliato. Non so quanto<br />
tempo rimasi lì. <strong>Il</strong> suono del telefono mi riportò alla realtà. Qualcuno cercava qualcuno e chiese scusa in<br />
fretta. Mi guardai intorno. <strong>Il</strong> ristretto spazio di quella stanza mi sembrò quello di una cella dalla quale però<br />
sarei potuto evadere. Raccolsi le mie poche cose e andai via. Uscii dal palazzo che era buio e continuava a<br />
piovere. Incurante dell’acqua mi misi a camminare senza scegliere una direzione precisa. Avevo voglia<br />
soltanto di andare. Passi rapidi guidavano la mia mente. Ma la mente non sentiva i miei passi. Passi perduti,<br />
passi dolorosi, passi solitari, passi senza ritorno, passi ritrovati, passi inutili, passi misteriosi, passi nella<br />
notte, passi bagnati, passi senza tempo, passi stranieri, i passi dell’oca.