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Il Testimone - Sane Society

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20.<br />

<strong>Il</strong> gallo è un animale pennuto che ha un posto importante nella storia del paese di Alvano. “Al gallo che<br />

suole, sbattendo le ali per cacciare via la notte, chiamare l’aurora con voce squillante, i rabbiosi leoni non<br />

possono stare di fronte a fissarlo: pensano immediatamente a fuggire, senza dubbio perché nei corpi dei<br />

galli vi sono certi semi che spinti negli occhi dei leoni, trafiggono le pupille e provocano un acuto dolore, sì<br />

che questi, nonostante la ferocia, non possono resistervi; mentre tali semi non possono ledere in nulla le<br />

nostre pupille o perché non vi penetrano o perché , pur penetrandovi, è data a essi una libera uscita dagli<br />

occhi sì che non possono, nel trattenersi, ledere in alcuna parte la vista”. 3<br />

Alvano si entusiasmava alla vista della folla nella grande piazza ondeggiante di calore elettorale. Con le<br />

braccia alzate gli spettatori tenevano fermi gli animali, inneggiando verso il cielo e verso il palco ricolmo di<br />

personaggi. Davanti al microfono, circondato da una folla di galoppini, lui era pronto ad arringare la folla.<br />

Si godeva compiaciuto lo spettacolo della piazza osannante al suo indirizzo. Qualcuno aveva legato le<br />

gambe degli animali per meglio maneggiarli. Altri avevano legato i loro becchi. Altri ancora avevano creato<br />

una sorta di corolla intorno al collo del pennuto. C’era poi chi li aveva colorati facendo perdere i loro colori<br />

naturali. I più fanatici addirittura lanciavano in aria il povero animale con grande abilità e lo riafferravano a<br />

volo. Poco distante dal palco, dal suo balcone, Alvano partecipava a quello spettacolo di folla umana ed<br />

animale che gli faceva fremere il sangue nelle vene per l’entusiasmo. Allora, insulso entusiasmo giovanile<br />

per ideali fatui, oggi, fremito di rabbia consapevole per la triste realtà del presente.<br />

<strong>Il</strong> comizio tardava a cominciare. Gli altoparlanti diffondevano a tutto volume inni e canzoni, intercalati da<br />

annunci ai quali la gente rispondeva sollevando al cielo i poveri animali. Tra un lancio e l’altro qualche<br />

pennuto riusciva a prendere il volo liberandosi dei lacci che lo tenevano legato. Atterrava a qualche decina<br />

di metri sulle teste della folla che si radunava rumoreggiando. Dal palco qualcuno urlava nel microfono<br />

inneggiando all’uomo capo del partito che aveva per simbolo il pennuto. <strong>Il</strong> gallo, animale sovrano,<br />

considerato addirittura più potente del leone, doveva significare il riscatto, la difesa, la guida di quella gente<br />

che veniva dai campi ed ai campi sarebbe ritornata. Ma la terra non era la loro. I terreni coltivati a verzure<br />

rigogliose, percorse dalla acque del silenzioso fiume, erano del padrone. E lui stava per arringarli, con il<br />

fascino della sua parola risuonante nella piazza come un ordine. L’ordine di votarlo. Lui era il loro padrone.<br />

Loro, i suoi schiavi. A lui gli dovevano rispetto, lui era il proprietario delle terre che essi coltivavano. Ne<br />

ricavavano un utile, potevano vendere i prodotti al mercato, facevano soldi. Ma il padrone era lui. Quelli<br />

erano i suoi fondi. Loro erano i mantenuti. Era soltanto per la sua liberalità che essi potevano guadagnarsi da<br />

vivere sui suoi terreni. Loro erano i cafoni, adatti solo a zappare, seminare, scavare, potare, governare gli<br />

animali, portare i raccolti al mercato. Venderli a buon prezzo. Pagare l’affitto, la tassa sul fondo, la tessera<br />

dell’associazione dei coltivatori, la tessera del partito, del sindacato, dell’associazione. E poi, lui sapeva<br />

parlare. Che ne sapevano loro della politica, dell’arte del governo, della burocrazia. Della libertà. Lui<br />

conosceva i codici, non solo quello civile e quello penale. Ma anche gli altri codici. Sapeva, infatti,<br />

comunicare. La parola facile, ad effetto, difficile, elaborata. <strong>Il</strong> codice della lingua negato a loro che a stento<br />

capivano il dialetto. Ad ogni festa comandata avrebbero portato il meglio dei loro prodotti a casa del<br />

padrone, anzi al ‘signorino’. Gli avrebbero baciato la mano. Lui era il compare, li aveva battezzati,<br />

cresimati, portati alle nozze, lui li aveva fatti uomini, anche se non sapevano leggere e scrivere. Quando<br />

andavano alla posta a mettere i soldi sul libretto non sapevano firmare e dovevano mettere la croce, dopo di<br />

avere trovato qualcuno che firmasse per loro, dopo di essere stati identificati dallo zelante impiegato allo<br />

sportello.<br />

Questo loro lo sapevano. Ma non se ne importavano tanto. Hai voglia ad urlare ed imprecare quello del<br />

balcone di fronte che avrebbe parlato subito dopo. Sarebbero scomparsi i pennuti e sarebbero apparse le<br />

falci ed i martelli, le bandiere rosse, i ritratti di baffone e quello del pelato col pizzetto. Gli inni rivoluzionari<br />

venuti da lontano sarebbero risuonati nella piazza, dagli stessi altoparlanti che pochi attimi prima avevano<br />

diffuso altre musiche ed altri inni. Liberatevi dalle catene con le quali vi tiene legati il vostro padrone. Siete<br />

solo sfruttati. Loro non sapevano cosa significasse, ma il professore diceva che erano proletari. Che si<br />

dovevano unire. Nessuno, secondo lui, aveva il diritto di possedere la terra che essi col sudore della fronte

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