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Il Testimone - Sane Society

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52<br />

30.<br />

Non poté vedere molto di quella parte della regione che portava verso nord, verso Calais. Una fitta coltre di<br />

nebbia avvolgeva tutto. <strong>Il</strong> treno correva veloce e sembrava come tagliare quella grande massa bianca che<br />

paralizzava la vista ma soprattutto l’anima. Non aveva mai veduto uno spettacolo del genere tranne quando<br />

dall’alto del sottotetto della sua casa, ai piedi di Alvano, guardava a valle, verso il mare, verso Capri e<br />

Vesevo. Ma quella non era vera e propria nebbia. Erano soltanto nuvole basse, foschia spesso mista a vapori<br />

di umidità, condense atmosferiche industriali provenienti dalle tante fabbriche che lavoravano negli spazi<br />

verdi e coltivati. Lui stesso, Alvano, gigante e monte allo stesso tempo, dominatore assoluto della catena<br />

appenninica che percorreva da nord a sud quella parte del territorio, era spesso accarezzato da soffici nuvole<br />

che si poggiavano teneramente fin sulle terrazze delle prime case dell’Episcopio. Bianche, a volte scure,<br />

cariche d’acqua. Sempre in movimento, portate dai venti del nord o sospinte dallo scirocco del sud. Non era<br />

nebbia quella. Alvano fissava in silenzio il vetro del finestrino come un lenzuolo bianco sul quale la pioggia<br />

faceva scorrere le sue gocce imperlandolo di una ragnatela come fatta di microbi in fuga dal vetrino di un<br />

ana lista in laboratorio. Cercava di tenere gli occhi aperti per non riaddormentarsi. Non voleva ricominciare<br />

l’incubo del sogno fatto prima. Gli sarebbe piaciuto incontrare di nuovo Barbara, vedere come la vicenda<br />

sarebbe finita. Avrebbero fatto la traversata insieme sul battello verso l’isola di Britannia. Ma non si fidava<br />

di quella nebbia. Troppo soffocante, troppo bianca, troppo densa. Durante una breve sosta del treno, ad un<br />

segnale rosso, aveva cercato di aprire il finestrino ma lo aveva subito rinchiuso a causa dell’aria esterna<br />

umida, pesante, vischiosa. Aveva, infatti, tentato subito di insinuarsi nello scompartimento prendendo la<br />

forma di lunghe lingue costringendo Alvano a richiudere il vetro. Si affacciò allora sul corridoio e sentì che<br />

qualcuno fumava la pipa appoggiato alla porta in fondo. Dall’altra parte del corridoio intravide l’alta figura<br />

di un uomo che aveva in testa qualcosa come un turbante. Un uomo di colore, anzi dalla pelle olivastra, con<br />

una lunga barba bianca. Alto, asciutto, con una giacca nera su di un pantalone bianco arrotondato verso il<br />

basso, come alla zuava. Non ispirava affatto sicurezza, anche se, accanto a lui c’era una ragazza dai capelli<br />

lunghi e corvini. Alvano rientrò nello scompartimento, rinchiuse dietro di sé la porta scorrevole e sperò che<br />

nessuno sarebbe venuto a sedersi con lui. Mancava ancora tempo per arrivare all’imbarco a Calais sul<br />

battello per Dover e non riusciva ad immaginare come sarebbe stata la traversata. Probabilmente il battello<br />

non sarebbe salpato con quella nebbia così densa. <strong>Il</strong> mare sarebbe stato agitato. <strong>Il</strong> capitano non avrebbe<br />

lasciato il porto.<br />

Ricordava ben poco, a distanza di tanti anni, di quel passaggio dal treno al battello. Per quanto si sforzasse,<br />

scavando nella memoria, doveva fare appello alla sua fantasia per ricostruire il suo percorso. Aveva<br />

conservato nella mente, in qualche modo, una serie di immagini: una rampa di scale a bordo; dei corrimano<br />

di corda umidi e nodosi; dei piccoli canali di scorrimento sul pavimento che servivano a racco gliere i disagi<br />

liquidi dei malcapitati che durante la traversata si fossero trovati a soffrire il mar di mare; un grande salone<br />

con tante poltrone e divani sui quali i viaggiatori sedevano soffrendo o dormendo durante la traversata. Già,<br />

perché il passaggio per Dover avvenne lo stesso nonostante la densa nebbia, il mare grosso, la scarsa<br />

visibilità, il forte vento del nord e la paura di tutti.<br />

Dopo che il grosso battello ebbe lasciato gli ormeggi mi resi conto che ero davvero solo con me stesso, su<br />

una barca in rotta verso un’isola di cui sapevo molto poco, su di un mare quanto mai procelloso, tra<br />

passeggeri compagni di viaggio sconosciuti e indifferenti. Tutti, comunque, eravamo come avvolti,<br />

imprigionati, condizionati, paralizzati sia nei pensieri che ne lle azioni, da quella coltre bianca che si infilava<br />

dappertutto. Salii sul ponte nel tentativo di lanciare uno sguardo oltre un invisibile ed improbabile orizzonte<br />

ma non vi riuscii perché gli occhi erano come smarriti nella coltre bianca, fredda, ostile, umida,<br />

maleodorante, con un pesante sapore di sale e di mare. Mi fermai sul ponte coperto cercando di penetrare<br />

con gli occhi in quella cortina. Mi affacciai appoggiandomi alla ringhiera del corridoio illuminato a<br />

malapena dalle luci del salone interno. La nebbia veniva incontro alla barca rompendosi in blocchi, a forma<br />

di grosse frange, che lasciavano appena intravedere il percorso sull’acqua. <strong>Il</strong> rumore assordante del vento e<br />

dei motori mi trasmettevano come un senso di sfida ad un destino che era da venire. Ero solo, come sola era<br />

quella barca nella nebbia in un mare sconosciuto. Improvvisamente mi accorsi che la grande cosa bianca<br />

stava come per sfaldarsi e in lontananza potevo cominciare e vedere una parte della costa inglese. Bianco su

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