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esquimesi! Molti erano quelli che si qualificavano come studenti i quali pur di lavorare si prestavano a fare<br />
qua lunque cosa. Alvano era uno di questi e aveva trovato un lavoro in un ospedale fuori del paese proprio là<br />
dove, circa duemila anni prima, aveva incontrato Boadicea ascoltando quel famoso discorso ai suoi<br />
guerrieri, prima di sferrare l’attacco vendicativo contro le legioni romane.<br />
Pensandoci bene, forse, si erano incontrati ad una delle tante feste che si organizzavano al ‘social club’<br />
dell’ospedale. Si giocava a bingo, a tennis, a bowling, a carte. Si guardava la TV, si ballava, si andava in<br />
piscina. Insomma, una struttura d’avanguardia per una comunità di quasi duemila pazienti in gran parte<br />
residenti. Non pazienti comuni, ma casi mentali: neonati, bambini, adolescenti, giovani, adulti, anziani.<br />
Maschi e femmine. Una umanità tutta speciale di cui mi occuperò dettagliatamente in seguito, se ne avrò<br />
l’estro e la voglia. Per ora vi basti sapere che, quasi certamente, Puck l’agganciai proprio qui. Non poteva<br />
che essere in quel posto. E mi spiego.<br />
<strong>Il</strong> personaggio Puck ha una lunga vita nella storia del folklore inglese: faerie, goblin, devil, imp, robin<br />
goodfellow, hobbit, pan, elf, hobs, sprite, termini variamente tradotti con fata, gnomo, diavoletto, elfo,<br />
spiritello. Nel caso di Puck, il personaggio assume, nel tempo, molte forme. Di volta in volta un cavallo,<br />
un’aquila, un asino oppure anche un bambino innocente. Nella cultura popolare moderna diversi personaggi<br />
sono stati creati per il cinema, il teatro, i fumetti. Scrittori e creativi di comunicazione si sono ispirati a<br />
questo tipo di spiritello. La sua natura non è né maschile né femminile. Di fatto ‘puck’ vuole essere la<br />
metafora dell’imprevedibilità nell’esistenza umana. E Puck, l’olandese, era imprevedibile. La ricordo,<br />
ancora come fosse oggi, quando una sera avevo deciso che, dopo tanto corteggiare, ronzarle intorno,<br />
prenderla per mano, dovevo tentare un approccio più concreto. Che so, un bacio a cinema, o una stretta sotto<br />
le mura romane. Quella sera mi sarei spinto oltre. Usciti dalla festa del social club, decidemmo di andarcene<br />
per il parco sul quale si snodavano una dopo l’altra le ville che ospitavano i pazienti. Esso era attraversato<br />
da ampie strade asfaltate, grandi alberi, con attrezzature per giochi per i pazienti. Non saprei dire quanti<br />
ettari di terreno fossero, abbastanza, comunque, per una co munità autosufficiente. C’era di tutto: cucine,<br />
centro di formazione del personale, biblioteca, fattoria con gli animali, il circolo, i campi da tennis, di<br />
bowling, la piscina, il palazzo degli infermieri, maschi e femmine, e poi decine e decine di ville che<br />
ospitavano in media ognuna 50-60 pazienti. Ogni villa, tipico cottage inglese, aveva del personale<br />
prestabilito fatto da infermieri, pazienti lavoratori, lavoratori esterni, sia di notte che di giorno. C’erano<br />
pazienti residenti e pazienti giornalieri. Pazienti abili o disabili dal punto di vista fisico e mentale.<br />
Comunque, tutti avevano problemi di testa, in breve: insufficienza mentale.<br />
Io, Alvano, ero finito a lavorare lì. Anzi, ci abitavo anche, nella palazzina dello staff. <strong>Il</strong> posto lo conoscevo<br />
bene, allora. Avevo deciso che quella sera mi sarei portata Puck su alla fattoria, in cima al parco. Un posto<br />
isolato sempre frequentato da chi voleva restare in pace anche per tutta la notte. D’inverno ci potevi andare<br />
in auto. D’estate, nei campi, in mezzo alle messi sotto le stelle o sotto la copertura delle rotonde in legno.<br />
Quella era una sera d’inverno. Faceva freddo, ed aveva nevicato in maniera leggera, ricoprendo i campi di<br />
un lieve strato bianco. Uscimmo dal circolo che era tardi ed avevamo bevuto. Puck era venuta in bicicletta,<br />
ma l’aveva lasciata al parcheggio dell’ospedale perché le strade erano ghiacciate. Sarebbe ritornata in città<br />
con un passaggio in auto di una amica. La luna splendeva alta nel cielo e cominciammo a camminare mano<br />
nella mano. Avevamo davanti una lunga distesa di campi coltivati a verzure e patate. Intravidi una delle<br />
tante rotonde di legno con sedili e mi ci diressi. Quelle rotonde erano comodi riferimenti sia di giorno che di<br />
notte. Accanto a questa c’era anche una casetta in legno che il giardiniere usava per custodirvi gli attrezzi di<br />
lavoro. Ci sedemmo. Mi feci coraggio e iniziai le grandi manovre. D’un tratto, come presa da un raptus,<br />
saltò in piedi e si mise a recitare prima in francese.<br />
“Alla luna, la luna bruna, la luna chiara. Alle stelle, le stelle d’oro, le stelle nere. Alla neve, la neve bianca,<br />
la neve stanca…”.