IL PROBLEMA DELLA LIBERTA' TRA ETICA E POLITICA - Filosofia
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sue azioni, non può essere a priori stabilito dalla ragione. Martinetti lo riconosce con<br />
franchezza: “questo è ciò che dà all’attività umana il suo particolare aspetto: per cui essa è<br />
tutta, almeno nelle sue linee generali, razionalmente congeniata: ma è irrazionale nel suo<br />
fine ultimo, in quello che dà il carattere a tutta la vita” (L 338). Lo stesso Aristotele, del<br />
resto, affidava al costume, all’educazione, anziché all’arbitrio del raziocinio individuale, il<br />
compito di fissare un modello obiettivo di virtù morale. In che senso, allora, un’etica<br />
formale pretende di poter stabilire qualcosa a priori circa la volontà?<br />
Ciò avviene a due livelli: quello proprio dell’intelletto e quello specifico della ragione<br />
(Kant utilizza, per distinguerli, due termini che, nell’uso corrente della lingua tedesca, sono<br />
in realtà sinonimi: Verstand e Vernunft, e anche Martinetti – come vedremo – tende ad<br />
attenuare, fin quasi ad annullarla, questa differenza ). L’intelletto è la facoltà dei concetti o<br />
delle regole, la ragione la facoltà dei principi. Il primo compito che il FORMALISMO dell’etica<br />
razionale si assume è infatti di applicare diversamente – all’uso pratico, anziché a quello<br />
teorico – le determinazioni universali della ragione pura. Senza annullarne i generali<br />
requisiti deterministico-causali, si scopre in tal modo una nuova strutturazione – di tipo<br />
teleologico – della esperienza. Quelli che nella considerazione prettamente teoretica<br />
valevano univocamente come nessi di causa-effetto (Ursache-Wirkung), si dispongono ora<br />
nella diversa sequenza dei mezzi e dei fini (Mittel-Zweck o Ziel). Il processo della<br />
deliberazione (che già Aristotele indica con il termine bouleusis), che si conclude nella<br />
decisione ovvero nella scelta (che già Aristotele distingue con il termine prohairesis), si<br />
può meglio ridefinire, dal lato formale, come l’analisi della catena tecnico-strumentale<br />
interposta dall’intelletto tra la posizione (irrazionale) del fine e la scelta (razionale) dei<br />
mezzi necessari a produrlo come risultato consapevolmente voluto. Se a, b, c …. x<br />
costituiscono una serie continua di elementi, tra loro legati da un nesso di determinazione<br />
causale (a causa di b, b causa di c, ecc.), e se x (termine finale di questa serie,<br />
casualmente condizionato dagli elementi che lo precedono) è l’oggetto che la mia volontà<br />
si rappresenta come fine, sarà sufficiente (ma anche necessario) che essa si applichi,<br />
nell’ordine, ad a, b, c, ecc. (identificandoli via via come scopi parziali e subordinati, ossia<br />
come mezzi) per attuare diversamente il processo causale, che li collega gli uni agli altri e<br />
con il termine finale. Il primo effetto, dunque, che la ragione formale ottiene applicandosi<br />
alla pratica, è quello di attuare una razionalizzazione (sempre parziale) dell’esperienza.<br />
L’agire umano (dunque la libertà umana o la spontaneità razionale, come lo definisce<br />
Martinetti nel cap. 12) non è in fondo diverso dall’agire impulsivo dell’animale, se non per<br />
un diverso grado di razionalizzazione. Esso è ottenuto mediante la graduale sostituzione<br />
di elementi rappresentativi di origine concettuale a quelli sensibili, di origine memorativa o<br />
riproduttiva, propri dell’animale (ma anche del bambino).<br />
Potete leggere, alle pp. 333-338, questa spiegazione, che pone un esatto<br />
PARALLELISMO tra una esperienza conoscitiva e pratica, nel passaggio graduale e continuo<br />
dalla rappresentazione sensibile al concetto, da un lato, e dalla attività impulsiva a quella<br />
volontaria, dall’altro. Martinetti riconosce a Kant il merito di avere più esattamente<br />
circoscritto l’ambito del pratico-morale, rispetto a quello del sensibile-pratico, di quanto<br />
non avesse saputo fare Aristotele, con la propria idea di volontà come finalità intelligente<br />
(“desiderio guidato dalla ragione”), mediante la sua dottrina degli imperativi, e, in<br />
particolare, mediante il concetto di imperativo ipotetico. Kant distingue infatti tra imperativo<br />
morale (categorico) e pratico (ipotetico). Il primo comanda in modo perentorio e assoluto di<br />
volere il fine in quanto tale (si esprime nel “tu devi” della legge morale). Il secondo invece<br />
si limita a comandare alla volontà di scegliere qualcosa in quanto mezzo, nell’ipotesi che<br />
essa voglia proporsi un determinato scopo. “Se vuoi il fine …. tu devi volere il mezzo per<br />
quel fine”: questa è la diversa formulazione dell’imperativo ipotetico rispetto a quello<br />
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