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IL PROBLEMA DELLA LIBERTA' TRA ETICA E POLITICA - Filosofia

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stessa pena di morte), si ha di mira proprio questa diversa finalità: quella del possibile<br />

recupero e della piena reintegrazione del reo nel consorzio sociale. Per giustificare questo<br />

ulteriore livello giuridico (che corrisponde al passaggio da un determinismo di tipo<br />

naturalistico a uno razionalistico) Martinetti ricorre alla distinzione kantiana tra “cosa” e<br />

“persona”. Ciò che distingue gli uomini e i valori morali dagli altri beni (ad esempio da<br />

quelli economici), è che ai primi non possiamo attribuire un prezzo, come facciamo con i<br />

secondi. Detto in altri termini, mentre è legittimo (su un piano di reciproca finalizzazione<br />

utilitaria dei rapporti sociali tra uomini) trattare gli altri come “mezzi” in rapporto a singoli<br />

scopi (il matrimonio, ad esempio, è definito da Kant un contratto privato che autorizza i<br />

contraenti all’uso dei rispettivi corpi), non è lecito, dal punto di vista morale, trattare i nostri<br />

simili soltanto come mezzi, ma è doveroso piuttosto considerarli sempre anche come fini.<br />

Ciò che fonda in ultima istanza, e dal punto di vista razionale, il diritto, è la comune<br />

appartenenza all’umanità (intesa come idea), il riconoscimento cioè di una “appartenenza<br />

dell’individuo all’unità razionale di tutte le volontà pratiche” (L 377). Il senso della<br />

responsabilità è dunque indissociabile dal riconoscimento della razionalità umana.<br />

Privarne il reo (magari per il gusto umanitario di addolcirne il tragico destino) sarebbe<br />

escluderlo per sempre da tale appartenenza universale, rinchiuderlo per sempre nella<br />

condizione di minorità incolpevole propria dei bambini, delle bestie o (in certe epoche e<br />

società) delle donne.<br />

Il riconoscimento di questo secondo livello (razionale o ideale, non prettamente<br />

naturalistico) del diritto, è ciò che consente di operare il passaggio al terzo livello (quello<br />

del diritto morale), in cui soltanto la pena trova la sua definitiva e compiuta giustificazione.<br />

A pag. 377 troviamo sinteticamente riuniti i tre fattori che cooperano alla determinazione<br />

del concetto della responsabilità giuridica. In particolare il terzo:<br />

Il terzo è il fattore morale, per cui la subordinazione puramente esteriore ed egoistica all’unità sociale si<br />

trasforma in dedizione interiore all’unità morale: per esso all’ordine giuridico si sovrappone un ordine<br />

puramente ideale, che, senza mai sostituirsi totalmente allo stesso, lo penetra e lo trasforma dall’interno,<br />

dando ai suoi ordinamenti e alle sue sanzioni un carattere morale: così la pura responsabilità giuridica si<br />

completa e si compenetra con l’imputabilità morale (L 377).<br />

A questo livello riacquistano significato, accanto a parole come “recupero sociale” o<br />

“rabilitazione” del reo, quelle più difficili da pronunciare senza scadere nella retorica, come<br />

“pentimento” ed “espiazione”. Martinetti (che in ciò segue da vicino l’atteggiamento<br />

rigorista di Kant) è del tutto alieno da atteggiamenti che oggi definiremmo di “perdonismo”.<br />

Egli è convinto della necessità che le pene, oltre che giuste nella retribuzione del delitto e<br />

certe nella loro applicazione, col duplice intento: preventivo e di recupero sociale, siano<br />

anche severe. Egli crede (anche da una prospettiva semplicemente laica, e non<br />

necessariamente religiosa) alla funzione espiatoria del dolore. Senza provare nella propria<br />

carne la stessa sofferenza che si è voluta infliggere all’altro (direttamente) e alla comunità<br />

(indirettamente), difficilmente si giungerà a sperimentare un autentico pentimento. Ma al<br />

pentimento non segue necessariamente il “perdono” (ciò può valere indubbiamente<br />

nell’ambito individuale e ha un indubbio significato religioso), bensì il risarcimento sociale.<br />

Ora, per certi delitti Martinetti ritiene che solo la pena di morte rappresenti un risarcimento<br />

adeguato. Egli dunque (come Kant) non la giustifica per ragioni strettamente giuridiche<br />

(nella sua funzione preventiva o di deterrente dal compiere certi delitti efferati), ma<br />

piuttosto giuridico-morali. E’ lo stesso rispetto che dobbiamo alla personalità morale del<br />

reo (che ci obbliga – secondo una delle formulazioni dell’imperativo categorico – a<br />

considerare sempre l’umanità in noi, oltre che negli altri, come un fine in sé), che può<br />

giustificare, in determinati casi (che Martinetti per altro non specifica) l’applicazione della<br />

pena di morte. Per il reo che abbia saputo compiere in se stesso una conversione morale<br />

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