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IL PROBLEMA DELLA LIBERTA' TRA ETICA E POLITICA - Filosofia

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8. POSSIAMO DIRCI LIBERI?<br />

Solo dopo avere ripercorso gli stadi della esperienza soggettiva della libertà, l’autore può<br />

trarre - nei serrati capitoli conclusivi - le conclusioni metafisiche, che più gli stanno a cuore.<br />

La testimonianza della coscienza, alle cui immancabili lacune il determinismo fa<br />

tradizionalmente appello per confutare la tesi del libero arbitrio, viene invece invocata da<br />

Martinetti a conferma del carattere non illusorio di tale esperienza, ma anche<br />

diversamente interpretata e valutata, al fine di escludere ugualmente l’opposta<br />

conclusione indeterminista (è questa la principale linea argomentativi sviluppata nei capp.<br />

XVI-XVII). Non bisogna confondere – chiarisce – “la coscienza della libertà con la<br />

coscienza della indeterminazione” (L 393). O, detto in altri termini, “la coscienza della<br />

libertà non è affatto coscienza della contingenza” (L 391). L’INDETERMINISMO utilizza infatti<br />

due argomenti principali, che Martinetti ribatte adunando molti degli argomenti già emersi<br />

nella trattazione storica del problema della libertà. Anzitutto 1) la testimonianza della<br />

coscienza, che si ribella alla pretesa del determinismo di voler prevedere il mio agire<br />

presente o futuro con la stessa certezza con cui “un astronomo predice un’eclissi” (è il<br />

medesimo esempio introdotto da Kant nella discussione della terza antinomia) (L 387). In<br />

secondo luogo 2) l’argomento morale (in parte già affrontato e discusso nel capitolo<br />

precedente) , fondato sul riconoscimento “della responsabilità, del merito e delle pene” (L<br />

388), che perderebbero appunto gran parte della loro ragion d’essere, in un mondo in cui il<br />

determinismo non fosse una semplice ipotesi di scuola, ma una persuasione diffusa e<br />

connaturata nel comportamento dei singoli. Ora, l’indeterminismo – a detta di Martinetti –<br />

risulta, da un lato, già confutato sul piano logico, in quanto negazione inammissibile del<br />

carattere a priori del principio di causalità:<br />

il principio di causa non è un principio empirico che sia in nostra facoltà di applicare o non applicare; esso è<br />

una legge a priori della realtà alla quale non possiamo rinunciare senza rinunciare alla comprensibilità della<br />

stessa. […] Noi non possiamo rinunciare al principio della concatenazione causale necessaria come<br />

principio a priori; possiamo bensì constatare la nostra ignoranza rispetto agli antecedenti causali di un fatto,<br />

ma non possiamo ammettere che esso sia senza antecedenti e che entri da sé, per virtù sua, ad un dato<br />

momento nella connessione degli elementi. Ciò che non è incluso in questa connessione non è parte della<br />

unità delle cose, non è reale (L 399-400).<br />

Dall’altro, lo si può respingere con argomenti attinti alla fenomenologia della vita morale e<br />

religiosa, della quale, lungi dal rappresentare (come ritengono i suoi proponenti) un<br />

antecedente necessario, rischia di costituire il più pericoloso e infido alleato.<br />

Per quanto riguarda la confutazione del primo argomento, Martinetti si rifà in gran<br />

parte alla trattazione datane da Schopenhauer. La testimonianza della coscienza non può<br />

essere invocata con successo a sostegno dell’ipotesi indeterminista o contingentista, in<br />

quanto la funzione primaria ed essenziale della coscienza è la conoscenza del mondo<br />

esterno e oggettivo (e solo in modo indiretto quella del mondo interiore soggettivo).<br />

Certamente la testimonianza della coscienza o dell’agire libero e spontaneo, può bastare a<br />

spiegare le manifestazioni esterne della volontà (libertas agendi), ma non può penetrare<br />

nel santuario intimo della autodeterminazione del volere (libertas volendi). “La coscienza<br />

che abbiamo delle nostre volontà – sottolinea Martinetti – non dice nulla intorno alla loro<br />

causa” (L 388): non è in grado cioè di stabilire con certezza se l’atto compiuto sia dovuto a<br />

“una decisione arbitraria” (L 390), oppure abbia come antecedenti una serie di fattori<br />

determinanti inconsci (“la vanità, l’abitudine, l’azione di impressioni remote ed obliate, il<br />

piacere di apparire indipendente agli occhi altrui e anche ai propri” (L 389), che lo<br />

renderebbero in ogni caso necessario. Per lo più, infatti, “consideriamo l’azione, di cui non<br />

conosciamo i moventi, come dovuta ad una decisione arbitraria” (L 390): ma da un non<br />

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