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IL PROBLEMA DELLA LIBERTA' TRA ETICA E POLITICA - Filosofia

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futuro predeterminato nel presente, dobbiamo sforzarci di pensare il presente alla luce del<br />

futuro:<br />

la realtà dell’io futuro non sarà più la realtà dell’io presente: anzi in ogni momento l’io costituisce intorno a sé<br />

una nuova realtà, che, nonostante differenze impercettibili, non è più quella di prima. Ognuna di esse<br />

obbedirà sempre alle leggi costitutive dello spirito: e perciò in ciascuna di esse il principio della<br />

conservazione causale e della conservazione dell’energia avrà la più rigorosa applicazione. Per l’intelligenza<br />

e le sue leggi formali, esso sarà sempre lo stesso mondo: ma per la personalità sarà un altro (L 419).<br />

Occorre distinguere allora tra temporalità sensibile e intelligibile: “nel tempo sensibile il<br />

mondo fluisce dinanzi all’io immobile; nel tempo intelligibile fluiscono l’io e il mondo con<br />

tutte le sue forme”. L’ordine naturale non lega lo spirito dall’esterno, ma ne è plasmato –<br />

per così dire – dall’interno: “lo spirito lo ricrea in ogni momento come un motivo melodico<br />

che torna, sempre identico e sempre altro, ad altezze diverse” (L 420).<br />

Possiamo cogliere infine il punto di intersezione e di transizione necessario tra<br />

idealismo etico e idealismo religioso (per usare due classiche definizione della filosofia di<br />

Martinetti, proposte rispettivamente da Augusto Guzzo e da Franco Alessio), accennando<br />

all’“epilogo metafisico” dell’opera. La fiducia morale, di cui si nutre la personalità etica<br />

dell’uomo, che a ogni grado della realtà intelligibile, cui lo eleva il suo sforzo di volontà<br />

(quella che Martinetti, con espressione felicissima, chiama – a pag. 419 – la “vita della<br />

ragione”), le sue necessità fisiche si pieghino ad esprimere l’ordine morale, riposa a sua<br />

volta sul riconoscimento razionale di una necessità ideale più sublime. E’ ciò che<br />

testimonia in fondo la fede religiosa, ove essa si presenti in forma sufficientemente pura<br />

ed elevata, e non nella sua versione superstiziosa e degradata: in quella che Martinetti<br />

chiama la “religiosità morbosa delle piccole menti” (L 428). Nel suo progresso morale –<br />

scrive Martinetti – l’io “non trae da sé, per una specie d’arbitrio, la nuova determinazione:<br />

ma la riceve come partecipazione, come “grazia” dal suo essere intelligibile, che è una<br />

sola cosa con la Ragione assoluta” (L 421). Noi “non abbiamo il potere di creare […]<br />

nuove attività che siano pure attività; di inserire un’azione altra da quella della Ragione:<br />

ma in ogni momento parla al nostro spirito la ragione il suo linguaggio, dispiegando dinanzi<br />

ai nostri occhi la realtà con i suoi sensi profondi ed in ogni momento la ragione, che è in<br />

noi, unifica, forma, innalza questa visione della Ragione attraverso le sue parvenze<br />

sensibili” (ibid.). Come potrei abbandonarmi passivamente alla necessità fatale delle cose,<br />

se questa non è, nella sua radice ultima, realmente altra dalla mia volontà (come<br />

confessiamo, ogni volta che pronunciamo con fede le parole del Padre nostro: “fiat<br />

voluntas tua”)? Va qui per altro sottolineato l’accento razionalistico di questa fede<br />

martinettiana: “il vero e unico mezzo di grazia, la sola sorgente di libertà è per noi il<br />

conoscere, che mentre trasforma l’essere nostro, trasforma anche intorno ad esso il<br />

mondo” (ibid.). Martinetti rappresenta il caso abbastanza unico nel Novecento di un<br />

razionalismo filosofico vissuto con la radicalità e l’esclusività di una fede religiosa.<br />

Ma insorgono qui le tradizionali difficoltà del determinismo teologico (già esaminate<br />

nella parte storica). Come si possono conciliare (sul piano metafisico) la libertà morale<br />

dell’uomo (la sua volontà finita) e la perfezione assoluta della volontà in Dio? Se Dio è<br />

veramente il principio assoluto delle cose, non è possibile ammettere negli esseri finiti<br />

un’attività veramente autonoma: è Dio (in ultima istanza) ad agire in essi. E allora “che<br />

senso hanno ancora il merito, la responsabilità e la libertà stessa?” (L 424). Vi è<br />

un’evidente incompatibilità del concetto di “creazione” con quello di “libertà”: “finché si<br />

pensa Dio come un’unità contrapposta alla nostra individualità spirituale, il fatalismo è<br />

inevitabile” (L 427). Non sembra potersi individuare altra via razionale che quella indicata,<br />

nelle sue ultime indagini sulla libertà del volere, da Schelling: “salvare l’uomo stesso con la<br />

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