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Luca Serianni: altro che «petaloso»,<br />

l’italiano è consegnato al banale<br />

Il linguista: il lettore spesso non sa riconoscere, né produrre, argomentazioni.<br />

Introdurre l’inglese al posto dell’italiano è una «corrosione» della lingua.<br />

Il politicamente corretto è «una gabbia»<br />

Bruno Giurato, linkiesta.com, 5 marzo 2016<br />

Più che il temutissimo «analfabetismo di ritorno» il<br />

problema che gli italiani hanno con l’italiano sembra<br />

essere una sempre maggiore «genericità» nell’uso<br />

della lingua. L’impoverimento del vocabolario a<br />

disposizione di parlanti e scriventi (le famose duemila<br />

parole che non possono bastare), sempre meno<br />

sfumature concettuali e sintattiche; una scuola che<br />

abitua sempre meno a leggere, fin dall’inizio. In breve:<br />

l’asservimento al banale.<br />

«Il problema è la perdita del lessico che non sia proprio<br />

quello corrente. Non sto parlando di parole rare<br />

e preziose», dice a Linkiesta Luca Serianni, filologo,<br />

ordinario di Storia della lingua italiana alla Sapienza<br />

di Roma. E spiega: «Una mia amica che insegna al<br />

liceo mi raccontava che un ragazzo non sapeva cosa<br />

volesse dire il verbo “cingere”».<br />

E non è una parola particolarmente ricercata.<br />

Non lo è. E se applichiamo questa carenza lessicale<br />

alla comprensione, per esempio, di un editoriale<br />

di un giornale ci accorgiamo che anche quest’ultimo<br />

può risultare opaco. Ma c’è un altro elemento<br />

preoccupante.<br />

Quale?<br />

L’organizzazione testuale. Costruiamo un’argomentazione<br />

per cercare di arrivare a una certa conclusione,<br />

disponiamo tessere come «dunque», «infatti»<br />

e simili, secondo una certa strategia precisa<br />

che non può essere alterata. Ma questa non viene<br />

riconosciuta dal lettore, né spesso la si sa produrre<br />

scrivendo in proprio.<br />

Stiamo creando nuove generazioni di a-grammaticali,<br />

persone che non sono in grado di creare delle connessioni<br />

esprimere un ragionamento?<br />

C’è poca attenzione verso questo problema. Ormai,<br />

da qualche decennio abbiamo raggiunto «l’italiano<br />

standard». Non c’è più il problema del conflitto col<br />

dialetto: quest’ultimo esiste ancora, ma non minaccia<br />

il possesso dell’Italiano. Manca l’abitudine alla<br />

lettura di testi saggistici, che l’editoria pensa per il<br />

cosiddetto «lettore colto» (e non sto parlando di testi<br />

particolarmente ardui). E questo produce delle<br />

conseguenze generali anche sul modo di pensare.<br />

I libri di letteratura in uso alle superiori sono fatti di poche<br />

righe d’autore, accompagnate da pagine e pagine di<br />

analisi del testo, più o meno di derivazione strutturalista.<br />

Le pare un approccio in grado di educare alla lettura?<br />

Sicuramente no. Il commento di un testo non deve<br />

schiacciarlo. E il testo non è da sottoporre ad una<br />

griglia interpretativa rigida, anche se l’infatuazione<br />

«narratologica» si sta ormai attenuando, e questo è<br />

un bene. Anche un testo antico andrebbe commentato<br />

spiegando sobriamente il significato delle parole.<br />

Ed esplicitando le sfumature. Quando Leopardi,<br />

nel Canto notturno di un pastore errante nell’Asia,<br />

dice: «Altro ufficio più grato / Non si fa da parenti<br />

alla lor prole», «ufficio» è il dovere, i «parenti» sono<br />

i genitori e il «dovere» è quello appunto dei genitori<br />

di consolare il bambino appena nato. Come si vede<br />

ci sono parole che a noi sembrano riconoscibili, ma<br />

sono usate, in un grande classico non troppo lontano,<br />

in un’accezione diversa da quella corrente.

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