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Un giorno tu mi tradurrai<br />
Da mestiere invisibile a star: con la formidabile spinta del caso<br />
Ferrante in Usa, chi riscrive in un’altra lingua i romanzi degli altri<br />
diventa oggi regista della letteratura globale<br />
Mara Accettura, d.repubblica.it, 30 marzo 2016<br />
Quando si è messa a tradurre in inglese la quadrilogia<br />
di Elena Ferrante, Ann Goldstein si è trovata<br />
davanti a una strana parola: «stradone», quello che<br />
divide il rione di Elena e Lila dal resto della città.<br />
Ha iniziato a scervellarsi. «Big street, large street,<br />
wide street, avenue, boulevard, broadway… Non<br />
esiste uno “stradone” in inglese». Alla fine ha deciso<br />
di lasciarla in italiano. Anche la parola «smarginatura»<br />
le ha dato non pochi grattacapi. «Ho cominciato<br />
con “trimming the edges”, cioè rifilare i margini, poi<br />
“losing the edges” e alla fine ho pensato che “dissolving<br />
boundaries”, dissolvere i limiti, comunicasse il<br />
senso giusto».<br />
Negli Usa Goldstein ha avuto un riconoscimento<br />
piuttosto sorprendente. Non solo secondo molti la<br />
sua traduzione – definita «elegante e levigata» dal<br />
critico letterario James Wood del «New Yorker» –<br />
ha contribuito al successo fenomenale dei libri (più<br />
di un milione di copie vendute nel mondo anglosassone),<br />
ma lei stessa è diventata una star, la faccia di<br />
una scrittrice la cui identità rimane misteriosa. Lo<br />
scorso settembre in una libreria di Brooklyn ha presentato<br />
Storia della bambina perduta (e/o) davanti a<br />
centinaia di persone. «All’inizio non mi sembrava un<br />
paradosso, era naturale rappresentare il libro», dice.<br />
«Ero contenta che il pubblico riconoscesse un libro<br />
tradotto e in un certo senso mi pareva una conquista<br />
per tutti i traduttori. Ma l’attenzione è stata inaspettata,<br />
strana». Oggi è tra le traduttrici più richieste<br />
dall’italiano: ha appena completato l’opera omnia di<br />
Primo Levi, dirigendo un pool di persone, e si sta<br />
cimentando con Pasolini. «Nel mondo anglosassone<br />
la figura del traduttore ha maggiore rilievo», interviene<br />
Massimo Bocchiola, «voce» di Irvine Welsh,<br />
Paul Auster e Thomas Pynchon. «Non è una geremiade,<br />
è proprio così: in molti libri appare persino la<br />
loro foto. Però in quei paesi si traduce molto meno,<br />
di conseguenza c’è più possibilità per il traduttore<br />
di emergere». «A me importa che venga riconosciuto<br />
il mio lavoro, per il resto preferisco rimanere<br />
nell’ombra», ribatte Alessandra Shomroni, «controfigura»<br />
di David Grossman e Abraham Yehoshua.<br />
Visibili o invisibili, i traduttori vivono a cavallo tra<br />
due culture. Anche perché spesso vivono nel paese<br />
ospite, come Giorgio Amitrano (Banana Yoshimoto<br />
e Murakami Haruki) a Tokyo, Margherita Podestà<br />
Heir (Jonas Jonasson e Karl Ove Knausgård)<br />
a Oslo, Alessandra Shomroni in Israele. Oppure,<br />
come Bocchiola e Goldstein, fanno su e giù. Questa<br />
schizofrenia geografica (e mentale) è necessaria per<br />
capire la mentalità di un posto, le sfumature, gli usi<br />
idiomatici, i pesi della lingua di partenza, e trasferirli<br />
in quella di arrivo.<br />
«Tradurre somiglia un po’ all’enigmistica», dice<br />
Bocchiola. «È come avere tra le mani il cubo di Rubik.<br />
Devi girare le frasi, i periodi fino a quando tutto<br />
torna a posto in modo compatto e coerente. Il punto<br />
d’arrivo è un testo con gli stessi valori espressivi<br />
di quello di partenza. Non si tratta di essere troppo<br />
aderenti, perché quella è falsa fedeltà, ma nemmeno<br />
dadaisti». Ognuno ha un suo metodo, a metà tra<br />
scienza e arte. «Faccio tantissime revisioni», dice<br />
Alessandra Shomroni. «Anche 5, 6, 7. Un processo<br />
di limatura che mi permette di arrivare all’essenza, la