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Se 700 pagine sono poche. Il romanzo diventa «maxi»<br />

Da Albinati a Moresco, gli autori di qualità puntano sulle narrazioni<br />

lunghe e lunghissime. Ma questa nuova tendenza sarà un bene?<br />

Andrea Caterini, «il Giornale», 8 marzo 2106<br />

In questa stagione editoriale italiana si sta verificando<br />

una proliferazione di romanzi monumentali. A<br />

ottobre scorso è arrivato in libreria per Bompiani Le<br />

cose semplici di Luca Doninelli, che conta oltre 800<br />

pagine.<br />

Il 17 marzo, per Rizzoli, uscirà il romanzo di Edoardo<br />

Albinati La scuola cattolica (1300 pagine). Antonio<br />

Franchini, neo direttore editoriale di Giunti,<br />

in un’intervista alla «Repubblica» ha annunciato,<br />

oltre alla candidatura al premio Strega del libro di<br />

Moresco (che non è certo estraneo alla monumentalità),<br />

anche l’uscita delle 2000 pagine di La vita<br />

vera è altrove di Giuseppe Montesano. E pare che<br />

sia particolarmente voluminoso anche il nuovo romanzo<br />

di Vitaliano Trevisan, che uscirà in aprile per<br />

Einaudi con Works.<br />

Occorre spazzare via prima di tutto ogni sospetto.<br />

Perché forse si sarà notato che gli autori che ho appena<br />

nominato sono tra gli scrittori più interessanti,<br />

intelligenti e talentuosi che ci siano oggi in Italia<br />

(quindi non è neppure lecito pensare che la misura<br />

l’abbia dettata la presunta astuzia di un editor;<br />

qui non si parla di scrittori di genere, di giallisti,<br />

ad esempio, i quali sanno che l’attesa aumenta la<br />

suspense).<br />

Autori che si sono distinti non solo per la loro opera<br />

narrativa, ma anche saggistica, e poetica, e teatrale.<br />

Non sono quindi narratori puri. Sembra, quest’ultima,<br />

un’osservazione di poco conto se non si tiene in<br />

considerazione che il romanzo è la forma d’arte per<br />

eccellenza più popolare, il mezzo espressivo in àmbito<br />

letterario più frequentato dai lettori, e quindi<br />

pure lo strumento di cui meglio ci si può servire per<br />

far passare riflessioni sociologiche, teorie filosofiche,<br />

teologiche o scientifiche insomma, per trasmettere<br />

anche un pensiero, attraverso lo stile, e non soltanto<br />

raccontare una storia. Fin qui nulla di male, anche<br />

perché il Novecento ci ha abituato a una forma-romanzo<br />

non più, o non solo, tradizionale, ma aperta<br />

e ibrida (e bastino gli esempi di Joyce, di Proust, fino<br />

a Witold Gombrowicz, Malcolm Lowry, Lawrence<br />

Durrell e a tanti altri). Ma il punto è un altro. Da<br />

cosa nasce questa necessità di abbondanza, o di accumulo?<br />

Cosa nasconde questo bisogno di dismisura?<br />

Non suona un po’ come un anacronismo?<br />

Del resto gli anni dei romanzi a puntate, l’Ottocento<br />

di Hugo, di Dickens, di Dostoevskij, di Stendhal<br />

eccetera, dico il secolo in cui il romanzo era anche<br />

un mezzo di intrattenimento, uno dei pochissimi<br />

per la verità, è trapassato, e soprattutto ci appartiene<br />

poco come tradizione nazionale (dico l’Italia, che è<br />

per eccellenza e per natura il paese della poesia e<br />

della novella). Ogni editor potrebbe senza ipocrisie<br />

confermarvi che agli autori dei grandi romanzi della<br />

tradizione ottocentesca sicuramente oggi si sarebbero<br />

tagliate non poche pagine.<br />

E allora perché opporsi con una soglia di sbarramento,<br />

una diga alla velocità del tempo che viviamo?<br />

Una controtendenza, una forma di snobismo<br />

o di superbia? Una volontà di potenza? O una paura?<br />

Ora è chiaro che sono io il primo a credere che<br />

ciascuna delle opere che ho qui nominato merita<br />

di essere letta e giudicata singolarmente, così come<br />

ho fatto, sto facendo e farò (posso già anticipare,

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