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La letteratura italiana non scrive più le maiuscole<br />
Franzen, Cercas, Houellebecq, i nuovi lavori degli scrittori stranieri<br />
affrontano i grandi temi della società. Ecco perché da noi non succede<br />
Paolo Di Paolo, «La Stampa», 8 marzo 2016<br />
Da quando abbiamo cominciato a temere le maiuscole<br />
in letteratura? Leggendo Purity, il nuovo romanzo<br />
di Jonathan Franzen (esce oggi per Einaudi),<br />
ho avuto – già a pagina 57 – la sensazione che,<br />
parlarne, richiedesse le maiuscole. E non c’entra il<br />
giudizio estetico, su cui si accapiglieranno i suoi fan<br />
diventati haters, i vecchi critici e i blogger un po’<br />
hipster.<br />
Le maiuscole, in questo romanzone di 600 pagine,<br />
riguardano prima di tutto i temi messi in campo:<br />
con l’aria di chi si limita a raccontare semplici storie<br />
di esseri umani, Franzen ti fa lampeggiare davanti<br />
agli occhi temi imponenti: la Purezza del titolo (è<br />
anche il nome della protagonista), l’Amore, il Sesso,<br />
la Verità assoluta. Le pretese dell’eterno Grande<br />
Romanzo Americano e dello scrittore talentuoso<br />
e ambiziosissimo? Forse. Ma, per contrasto, mi è<br />
venuto da guardarmi intorno e allo specchio. Non<br />
sono esterofilo e non mi piacciono i piagnistei, ma<br />
non sono riuscito ad aggirare la domanda: nell’Italia<br />
del 2016, cosa siamo ancora disposti a chiedere ai<br />
romanzi? Ci interessa ancora che la narrativa si faccia<br />
carico dei perché fondamentali?<br />
Basta aprire il saggio – fresco di stampa per Mondadori<br />
– del critico inglese James Wood, La cosa più<br />
vicina alla vita, per avvertire una fiducia – ingenua?<br />
No, ancora innamorata – per la letteratura. La letteratura<br />
come «uno spazio completamente libero,<br />
dove puoi pensare qualsiasi cosa, dire qualsiasi cosa»;<br />
la letteratura - scrive Wood - che prende in carico<br />
(accanto alla scienza e alla fede, ma diversamente da<br />
loro) gli immensi perché dell’esistenza.<br />
«Questi volumi in brossura che ardevano», scrive<br />
Wood ricordando le grandi letture che l’hanno formato:<br />
ho pensato a come un minimalismo culturale<br />
prima che formale ha inquinato il campo, impedendo<br />
alle cose, ai libri, di ardere davvero. Abbiamo<br />
noi stessi abbassato la posta in gioco, l’asticella<br />
dell’ambizione: le eccezioni ci sono sempre, ovvio,<br />
ma faticano a farsi largo in un tempo che preferisce<br />
il ghigno al sorriso, la beffa all’emozione, l’ironia a<br />
qualunque forma di serietà.<br />
Non c’entrano né la vecchia retorica dello scrittore<br />
engagé, né il numero di pagine (con mille o con<br />
cento puoi raggiungere lo stesso risultato): c’entra<br />
questa scelta condivisa, dunque ormai collettiva, di<br />
rinunciare in partenza a prendersi sul serio.<br />
Per paura di essere seriosi, abbiamo preferito la battuta<br />
a ogni costo, la trascurabile felicità a una più<br />
impegnativa inquietudine. Così, ripetendo che la<br />
società letteraria era finita, che non c’era più Calvino<br />
– e ora non c’è più nemmeno Eco –, e che gli<br />
editori e il Mercato avevano tutte le colpe, ci siamo<br />
convinti di non averne nessuna. Smettendo quasi<br />
completamente di rischiare: accontentandoci di quel<br />
poco che resta.<br />
Eppure, appena oltre confine, appaiono libri che<br />
riescono a imporsi nel dibattito sociale e politico,<br />
senza essere prigionieri della cronaca o dell’attualità.<br />
Guardiamo ai cugini: in Francia almeno Houellebecq,<br />
Carrère, Sansal, in Spagna, per esempio,<br />
Javier Cercas, che ha dato alle stampe una illuminante<br />
riflessione sullo scrivere romanzi. Il punto<br />
cieco (Guanda) indicato dal titolo è l’enigma che la