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Il ritmo sincopato dell’identità perduta<br />

David Peace. Il cuore velenoso dei Joy Division è la miscela per uscire<br />

dal disincanto acido che nutre la «letteratura della sconfitta»<br />

Guido Cladiron, «il manifesto», 17 marzo 2016<br />

Con uno stile ossessivo, dove le stesse parole ritornano<br />

per scandire in modo maniacale lo smarrimento<br />

e l’incertezza, ma anche per trasformarsi in suono<br />

e ritmo, David Peace si interroga da tempo sulle<br />

tracce che le grandi trasformazioni lasciano in ciascuno<br />

di noi, su quell’indicibile senso di perdita che<br />

portano necessariamente con sé. Osserva ben oltre<br />

il bordo dell’abisso, o sceglie in modo deliberato di<br />

precipitarvi dentro, il fluire degli avvenimenti fino a<br />

farne materia palpitante delle sue pagine, intrise di<br />

sangue, sudore, lacrime.<br />

Come altrettanti riti di passaggio, i suoi romanzi<br />

scandiscono la fine di una stagione, il mutare di<br />

un’epoca che si consuma mietendo inesorabilmente<br />

nuove vittime. Lo ha fatto, all’inizio della sua carriera,<br />

celebrando il tramonto dell’identità operaia del<br />

Nord dell’Inghilterra e la definitiva sconfitta della<br />

working class, incarnata dall’ultimo storico sciopero<br />

dei minatori, a opera di Margaret Thatcher. Ma,<br />

per molti versi, sembra averlo voluto fare anche con<br />

delle storie che raccontano di un calcio che non c’è<br />

più: quello inglese degli anni Settanta che per quanto<br />

infestato di hooligans e razzismo non aveva ancora<br />

perso il suo legame sentimentale con i tifosi e il<br />

territorio. Infine, paradossalmente, la patria del suo<br />

volontario esilio, il Giappone, gli ha offerto la possibilità<br />

di farlo con il progetto di una trilogia dedicata<br />

all’immediato secondo dopoguerra, in cui descrivere<br />

le inquietudini e le ombre di un paese che non aveva<br />

ancora fatto i conti con i propri demoni.<br />

Un capitolo, quest’ultimo, rimasto al momento incompiuto<br />

dopo l’uscita dei primi due romanzi, ma<br />

che Peace non ha mai davvero abbandonato, come<br />

testimonia Fantasma (pp 100, euro 17), la raccolta<br />

appena pubblicata dal Saggiatore in cui lo scrittore<br />

inglese ha riunito 4 racconti – uno dei quali, «Dopo il<br />

filo, prima del filo» del tutto inedito anche in lingua<br />

inglese – e un breve saggio dedicati, o meglio ispirati<br />

allo scrittore giapponese Ryunosuke Akutagawa,<br />

morto suicida nel 1927, spesso paragonato a Kafka<br />

e considerato uno dei riferimenti intellettuali più influenti<br />

per le successive generazioni di autori del paese.<br />

Prendendo a prestito la citazione di un critico, Peace<br />

descrive quella di Akutagawa come «la letteratura<br />

della sconfitta», permeata da un senso di perdita e di<br />

inadeguatezza. Spiega come in Vita di uno stolto, una<br />

sorta di autobiografia dell’autore giapponese, «ogni<br />

riga è permeata di morte e sconfitta».<br />

Ma la sofferenza dell’intellettuale non è aliena dal<br />

disfacimento di un mondo: «Akutagawa morì sei<br />

mesi dopo la scomparsa dell’imperatore Taisho e l’inizio<br />

dell’èra Showa. Per molti la sua morte rappresenta<br />

non solo la fine di un’era ma la vera sconfitta<br />

dell’intellettualismo giapponese». Iniziava infatti per<br />

il Giappone la stagione che gli storici locali hanno<br />

ribattezzato come «fascismo dell’età imperiale» che<br />

avrebbe portato alle guerre di sterminio in tutta<br />

l’Asia e alla stessa Seconda guerra mondiale. Riflettendo<br />

da scrittore sulla figura di Akutagawa, David<br />

Peace non si accontenta però soltanto di esplorare il<br />

buio in fondo all’anima, va oltre quella capacità di<br />

scandagliare la paura restituendole un senso, che in<br />

passato gli è valsa l’etichetta di nuovo maestro del<br />

noir, spesso affiancato a James Ellroy, per indagare i

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