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Scrivere la metropoli americana<br />

Città in fiamme di Garth Risk Hallberg (Mondadori) e Giorni di fuoco<br />

di Ryan Gattis (Guanda). New York nel blackout del ’77, Los Angeles nelle<br />

rivolte afroamericane 1992, due laboratori di rappresentazione romanzesca<br />

Luca Briasco, «Alias del manifesto», 6 marzo 2016<br />

Il 2016 si è aperto, in Italia, con la pubblicazione<br />

quasi in simultanea di due romanzi che, nella seconda<br />

metà dello scorso anno, hanno suscitato grande<br />

interesse critico negli Stati Uniti, occupando il<br />

centro del dibattito letterario e segnando l’ascesa o<br />

la definitiva consacrazione di due autori, entrambi<br />

sotto i 40, con i quali è molto probabile che continueremo<br />

a fare i conti nei tempi a venire. Esaminarli<br />

insieme non è una forzatura in quanto i due<br />

libri, pur diversissimi per mole, costruzione e stile,<br />

sono accomunati da un nucleo forte, che ne sancisce<br />

l’originalità e che, in entrambi i casi, ruota intorno a<br />

un episodio di storia urbana che ha lasciato un segno<br />

profondo nell’immaginario collettivo, americano e<br />

non solo.<br />

Nel caso di Città in fiamme, di Garth Risk Hallberg<br />

(Mondadori, traduzione di Massimo Bocchiola,<br />

pp 1005, euro 25), l’azione si svolge tutta a New<br />

York e culmina nel blackout del 13 luglio 1977,<br />

mentre in Giorni di fuoco, di Ryan Gattis (Guanda,<br />

traduzione di Katia Bagnoli, pp 410, euro 22),<br />

la trama è tutta concentrata nei 6 giorni di rivolte<br />

e saccheggi che, tra il 29 aprile e il 6 maggio del<br />

1992, sconvolsero l’area di Los Angeles, a seguito<br />

dell’assoluzione di 3 agenti di polizia accusati di<br />

uso eccessivo della forza durante l’arresto dell’afroamericano<br />

Rodney King.<br />

Questo, dunque, il primo dato di fatto: tanto Hallberg<br />

quanto Gattis scelgono di confrontarsi con<br />

grandi eventi pubblici, indagandone le dinamiche o<br />

le origini; ed entrambi optano per quella che è forse<br />

l’unica via di racconto possibile: l’affresco corale.<br />

Dopo una lunga sequenza di romanzi che hanno scelto<br />

di scandagliare l’America e le sue trasformazioni a<br />

partire dalla famiglia – una vera e propria serie, di cui<br />

Pastorale americana rappresenta probabilmente l’atto<br />

fondativo, e Le correzioni e Middlesex due snodi fondamentali<br />

–, è come se, con questi due libri ponderosi<br />

nei quali i personaggi si affollano, invadono le pagine,<br />

si raccontano a volte fino all’eccesso e si trasformano<br />

a turno in coscienze centrali e testimoni degli eventi<br />

pubblici, lo sguardo autoriale tornasse ad allargarsi,<br />

guidato e sorretto da una fiducia quasi ottocentesca<br />

nella capacità di interpretare la storia, di colmare lo<br />

iato tra vicende individuali e moti collettivi.<br />

Di spirito ottocentesco, non a caso, ha parlato molta<br />

della critica americana, soprattutto in riferimento al<br />

romanzo di Hallberg. Non esiste quasi un recensore<br />

che non abbia fatto il nome di Dickens, e in particolare<br />

di Casa desolata, soffermandosi sugli elementi<br />

di Città in fiamme che più da presso ne ricordano<br />

le architetture narrative: dai personaggi, quasi tutti<br />

orfani in senso letterale o metaforico, al gioco di<br />

coincidenze al limite dell’inverosimile che consente<br />

a tutte le loro vite di intrecciarsi dentro una metropoli<br />

che, quanto a estensione e tentacolarità, batte<br />

per distacco la Londra vittoriana.<br />

E accanto a quello di Dickens – cui andrebbe aggiunto,<br />

non meno centrale, il Balzac di Le illusioni<br />

perdute, espressamente evocato nel romanzo attraverso<br />

il personaggio di Mercer, il giovane afroamericano<br />

che sbarca a New York col sogno di scrivere<br />

il grande romanzo americano, convinto che la narrativa<br />

possa ancora insegnare, e forse insegnargli, a

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