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Vivere senza critica<br />
Siamo assediati da consigli e giudizi di amici su qualunque prodotto culturale,<br />
mentre la critica professionistica agonizza. Possiamo dirle addio?<br />
Francesco Guglieri, rivistastudio.com, 29 marzo 2016<br />
Chi ha bisogno della critica oggi? Di quella professionistica<br />
intendo. Siamo assediati da consigli,<br />
suggerimenti, giudizi di amici e di amici tra virgolette,<br />
tipo quelli di Facebook. Che sia su film, dischi,<br />
amanti, ormai nessuno – a meno che non sia,<br />
beato lui, privo di connessione a internet – si basa<br />
più su una recensione scritta da un critico professionista.<br />
Forse perché la recensione la sta già scrivendo<br />
lui: chiunque abbia un account di Tripadvisor,<br />
o Amazon, iTunes, Netflix è chiamato, in qualche<br />
momento della sua vita di consumatore, a improvvisarsi<br />
esperto di qualcosa che ignora (e che, sperabilmente,<br />
ha provato: ma non sempre. Ho scoperto<br />
che è in corso un acceso dibattito sulla pagina<br />
di Amazon del blu ray del Risveglio della forza, un<br />
prodotto che uscirà soltanto il 13 aprile ma che possiede<br />
già 50 recensioni degli utenti, molte delle quali<br />
sono di protesta contro le altre recensioni…). Che<br />
poi tutte queste «stelline» vadano a nutrire il mostro<br />
dell’algoritmo è un altro discorso. Quello che<br />
mi colpisce, invece, è come si sia tutti chiamati a<br />
fare i critici: quasi che per avere diritto di cittadinanza<br />
nel presente si debba essere anche dei raffinati<br />
ermeneuti. La città dell’interpretazione non dorme<br />
mai. Il consumatore perfetto non è quello superficiale<br />
e facilone – come la nostra Kulturkritik anni<br />
Sessanta e Settanta continuava a ripetere – ma quello<br />
sinceramente appassionato, l’esperto. Il nerd. In<br />
un certo senso, allora, stiamo vivendo l’epoca d’oro<br />
della critica. Il sogno di tante matricole di Lettere –<br />
essere chiamati a esprimere un giudizio estetico – si<br />
sta avverando per tutti.<br />
Ma se tra questi «tutti» c’è anche Nick Fury, il capo<br />
degli Avengers, allora possono arrivare i guai. In una<br />
recensione del maggio del 2012, A.O. Scott, il critico<br />
cinematografico del «New York Times», aveva<br />
osato, beh, criticare il primo film degli Avengers.<br />
Una critica neanche tanto severa, alla fine: si limitava<br />
a dire che il film era una commedia brillante, piena<br />
di dialoghi intelligenti e veloci, incassata dentro un<br />
enorme bancomat di effetti speciali a esclusivo beneficio<br />
della Marvel e del suo nuovo padrone, la Disney.<br />
A stretto giro di Twitter gli risponde Samuel<br />
L. Jackson, che nel film interpreta Nick Fury appunto,<br />
esortando tutti gli #Avengers fans a «trovare un<br />
nuovo lavoro per A.O. Scott. Un lavoro che sappia<br />
davvero fare». Quello che successe dopo è prevedibile<br />
e lo racconta lo stesso Scott in Better Living<br />
Through Criticism, da poco uscito negli Stati Uniti:<br />
migliaia di tweet, da chi gli elencava i lavori che poteva<br />
fare a chi ne chiedeva il licenziamento in tronco.<br />
«I tweet più coerenti contenevano il tradizionale, potremmo<br />
dire canonico, argomento anti-critica: che<br />
ero incapace di provare gioia; che volevo rovinare il<br />
divertimento del mio prossimo; che ero un hater, un<br />
pedante, uno snob; e anche – questa era una novità<br />
– che ero il bambino secchione che a scuola picchiavano<br />
perché non leggevo fumetti (ai miei tempi<br />
succedeva il contrario: erano i lettori di fumetti a essere<br />
bullizzati: evidentemente le cose devono andare<br />
diversamente oggi che i supereroi e le legioni di loro<br />
fanboy hanno preso il controllo di tutto)».<br />
La verità, ovviamente, è che siamo ben lontani dal<br />
vivere un’epoca d’oro della critica. Scrive Martin